Eugenia caryophyllata L.

Il loro nome non tragga in inganno. Come molti già sapranno, infatti, i chiodi di garofano nulla hanno a che vedere con il ben noto fiore, il garofano comune (Dianthus caryophyllus) simbolo di promessa di matrimonio, pegno d’amore e della Passione di Gesù.

I chiodi di garofano derivano invece dai boccioli fiorali, raccolti ed essiccati, dell’Eugenia caryophyllata (sin. Syzygium aromaticum, Caryophyllus aromaticus,Eugenia caryophyllus), albero sempreverde appartenente alla vasta famiglia delle Myrtaceae. Originario delle Molucche e diffuso spontaneamente nelle Isole Reunion, Antille, Madagascar e in Indonesia, oggi viene coltivato in molte aree tropicali: Antille, Africa orientale, Cina e Zanzibar, l’isola africana “delle spezie” e maggior produttrice mondiale per la quale rappresenta la migliore risorsa economica.

Fiori di Eugenia caryophyllata

Alto 10-15 m mostra una chioma tondeggiante, foglie ovato-lanceolate, opposte, di color rossastro da giovani che diventano con il passare del tempo di una tonalità verde scuro; viste in trasparenza mostrano numerosi puntini traslucidi, ricchi di olio essenziale. I fiori sono riuniti in corimbi ad ombrello: da un lungo calice rosso acceso sboccia un fiorellino bianco, dall’aspetto piumoso; ai fiori seguono piccole bacche rossastre. Una volta essiccati i singoli fiori assumono una forma che ricorda vagamente quella di un garofano, da qui il nome della famosa spezia. Ogni singolo chiodo di garofano è formato dal lungo calice gamosepalo, formato da 4 sepali e da 4 petali ancora chiusi che formano la parte tonda centrale. La prima raccolta dei bocci (che viene effettuata a mano in tarda estate ed in inverno) si ha dopo 6-8 anni dalla piantagione dell’albero, che poi produrra’ circa 34 chili di prodotto essiccato all’anno.

Boccioli essiccati

I boccioli essiccati hanno colore bruno e consistenza legnosa, si utilizzano interi, oppure vengono macinati, preferibilmente appena prima dell’utilizzo, per evitare la dispersione degli oli aromatici: emanano infatti un profumo forte, dolce e fiorito, con una punta di pepato e di “caldo”, mentre il gusto può ricordare quello degli infusi di carcadè. Ricordiamo ancora che i chiodi di garofano non vanno confusi col pepe garofanato, altrimenti noto come pimento, altra spezia ricavata dai frutti essiccati della Pimenta dioica, albero sempreverde, anch’esso della famiglia delle Myrtaceae e originario della Jamaica, importato da Cristoforo Colombo in Spagna pensando che fosse pepe.

Molto diffusi in Oriente i chiodi di garofano erano già utilizzati nella Cina di 2200 anni fa per le loro proprietà medicamentose. Il Meyers, antico segretario della legazione britannica a Pechino, potè assodare come essi fossero già citati da diversi scrittori cinesi, alcuni secoli prima di Cristo. Lo stesso riferì come gli ufficiali della corte usassero masticare alcuni chiodi di garofano prima di presentarsi al loro sovrano, affinchè il loro alito fosse gradevole. I cinesi chiamavano queste spezie col nome di “spezie a lingue di uccelli”, mentre oggi il loro nome volgare “Ting-hiang” vuol dire chiodi-profumo o chiodi-spezie. La medicina moderna ha confermato la validità di questa tradizione utilizzandone l’essenza nei disinfettanti orali.

In Occidente tracce di questa spezia risalenti al XVIII secolo a. C. sono state ritrovate in Siria, ma le sue proprietà farmacologiche e aromatiche vennero ignorate a lungo da greci e latini. Sembra che furono gli Arabi nel IV sec. ad introdurla, esaltandone il valore e la provenienza mitologica ed è del VI sec. la prima testimonianza archeologica, rinvenuta in Alsazia, in una tomba contenete una piccola scatola d’oro racchiudente due chiodi di garofano. Il mito di questa spezia crebbe con il tempo, come il loro valore: nel Medioevo veniva consigliata per combattere dolori frequenti e comuni, come il mal di testa o il mal di denti, e una manciata di chiodi di garofano poteva valere anche mezzo bue o un montone.

In Europa arrivò tramite la “via dell’incenso” e Dante ne dà una preziosa testimonianza, condannando il comportamento scialacquatore di un ricco senese del Duecento:

“… e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoperse
nell’orto dove tal seme s’appicca;
e tra ‘ne la brigata in che disperse”

(Inf. XXIX, 127-129)

Guido Cavalcanti e la brigata godereccia, miniatura del XV secolo

I versi si riferiscono ad un gruppo di dodici ricchi senesi, tra i quali Niccolò (da alcuni identificato con Niccolò dei Salimbeni) che saputo essere prossima la fine del mondo decisero di godersi la vita affrettandosi a spendere il molto denaro posseduto. Furono soprannominati la Brigata spendereccia (o godereccia) e il nome di Niccolò venne legato ai chiodi di garofano che avrebbe fatto importare dall’Oriente per aromatizzare la selvaggina. Secondo l’interpretazione del Landino, commentatore quattrocentesco, il giovane senese fece addirittura arrostire la carne non su legno ma su brace di chiodi di garofano per mandare in fumo una cifre astronomica.
Nel Medioevo si faceva uso di un qualche tipo di chiodi di garofano, chiamati gariofili, anche per scopi terapeutici. La Scuola Medica Salernitana li valutava una vera e propria panacea, efficace per combattere la fatica mentale o la perdita di memoria. Si credeva addirittura che le arance nelle quali fossero stati conficcati dei chiodi di garofano proteggessero dalla peste e a tale scopo, a Napoli, si preparavano pastiglie con questa spezia. (Fonte: www.taccuinistorici.it)

A tal proposito merita di essere ricordata la curiosa vicenda legata al cosiddetto Olio dei Ladruncoli.

Correva l’anno 1413 e la peste bubbonica imperversava in Europa. Quattro ladri furono catturati e accusati di rubare ai morti e alle vittime moribonde. Durante il processo il magistrato offrì loro la clemenza se avessero rivelato come avessero fatto a resistere all’infezione, mentre realizzavano atti così spaventosi. I quattro raccontarono allora che erano profumieri e commercianti di spezie e che avevano sfregato sulle proprie mani, orecchie e tempie una miscela speciale di erbe aromatiche, tra le quali il chiodo di garofano e il rosmarino. Ne derivò una formula chiamata, appunto, Olio dei ladruncoli ed elaborata sulla base di ricerche condotte sui metodi dell’erboristeria del XV secolo.

A partire dal XVI sec. i chiodi di garofano iniziarono ad essere importati direttamente dagli europei grazie ai portoghesi di ritorno da Timor Est e dagli olandesi, che ne scoprirono un’ottima fonte nell’isola di Zanzibar e alle Maldive. Come già per la cannella essi divennero i principali importatori della spezia, tra le più amate e tra le più care. Gli olandesi e i belgi ne ricavarono successivamente l’olio essenziale che divenne un componente molto amato dalla cosmesi, che nei due paesi fiorì grazie anche al suo prezioso contributo.

Questa spezia, dal profumo e dall’aroma così singolare, divenne sicuramente uno dei prodotti più ricercati e cari del tempo. I medici consigliavano di metterla in infusione nel latte perché avrebbe mirabilmente aumentato le forze di Venere. I chiodi erano considerati infatti alla stregua di potenti afrodisiaci, tanto che il loro uso veniva proibito ai religiosi appartenenti ai vari ordini monastici.
I trattati medici dell’Ottocento continuarono a ritenere i chiodi di garofano validi a curare l’impotenza e ottimo rimedio anestetico da introdurre all’interno di un dente dolorante o sopra una ferita indolenzita.
Dalla droga si estrae infatti un olio essenziale considerato uno dei rimedi migliori contro stanchezza e depressione: è un ottimo tonico e un corroborante, da utilizzare in periodi di stress che danno stanchezza e spossatezza. In aromaterapia il tè di chiodi di garofano é consigliato nell’ultimo mese di gravidanza per rinforzare la muscolature dell’utero. Si ritiene inoltre che il profumo del chiodo di garofano riscaldi l’anima e allontani la malinconia, risvegli le passioni e faccia tornare la voglia di vivere; a tale scopo si può impiegare per la preparazione di un bagno caldo o per la doccia, come rivitalizzante.
Riguardo alle proprieta’ terapeutiche, l’essenza d’olio che si ottiene dai chiodi di garofano viene usato molto in odontoiatria, per le sue proprieta’ anestetiche e antisettiche: e’ utile per calmare il mal di denti, per disinfettare il cavo orale e profumare l’alito (a tale scopo si consiglia 1 goccia di olio di chiodi di garofano ed 1 di salvia su un batuffolo di cotone da applicare sulla parte dolente). Ottimo antivirale ed antibatterico è consigliato contro cistiti, faringiti, tonsilliti, coliti batteriche enterocoliti virali e spasmodiche (a questo proposito si può utilizzare durante i viaggi esotici poiché blocca gli effetti intestinali tipici). E’ anche un ottimo stimolante di calore, eccellente quindi per le persone che hanno cattiva circolazione periferica.

Arancia decorata con chiodi di garofano
Tra gli altri usi ricordiamo che una ciotolina di chiodi di garofano, mescolati a lavanda, artemisia e cannella, posta dentro la credenza dove teniamo pasta, pane, farina, terrà lontane le tarme ed eviterà che i vasi di vetro, i contenitori di plastica o le borse termiche, che per un po’ di tempo non vengono utilizzati, prendano un cattivo odore. In alternativa alla ciotolina i chiodi di garofano possono essere piantati sulla superficie di una mela, di un arancia o di un limone, e poi riposti nell’armadio o nella credenza.
Ma la vera sorpresa è data dal loro potere antiossidante (ORAC) tra i piu’ elevati in assoluto, con un indice di valore pari a 314446, circa 80 volte piu’ potente di una mela, che già di per sè è considerata un ottimo antiossidante. La conferma viene fornita da alcuni ricercatori spagnoli della Miguel Hernández University (UMH) di Elche che hanno indicato i chiodi di garofano come la più potente spezia antiossidante, in virtù del fatto che contengono elevati livelli di composti fenolici, in particolare eugenolo.

Juana Fernández-López, una degli autori dello studio pubblicato sulla rivista “Flavour and Fragrance Journal”, ha affermato che: “Tra le 5 differenti capacità antiossidanti che abbiamo testato, i chiodi di garofano hanno dimostrato di possedere la più alta capacità nel ridurre la perossidazione dei lipidi e di essere il miglior agente riducente del Ferro. I risultati della ricerca suggeriscono come l’uso di tali spezie tipiche della dieta Mediterranea, o dei loro estratti, possa essere una nuova via percorribile dall’industria alimentare, nella misura in cui non siano alterate le proprietà organolettiche dei cibi prodotti. Queste sostanze mostrano una forte capacità antiossidante, e possono dare forti benefici sulla salute.”

Il team di ricerca si è soffermato anche sugli effetti antiossidanti degli oli essenziali di altre spezie, come origano (Origanum vulgare), timo (Thymus vulgaris), rosmarino (Rosmarinus officinalis) e salvia (Salvia officinalis), con l’obbiettivo di favorire l’aggiunta di tali spezie nei prodotti alimentari, in particolare nella carne, come antiossidanti naturali, al posto di quelli sintetici.

“L’ossidazione dei lipidi è una delle principali ragioni per cui i cibi deteriorano”, continua Fernández-López, “e causa una significativa riduzione del loro valore nutrizionale, oltre alla perdita del sapore originario”. Queste alterazioni conducono ad una riduzione della durata della vita dei prodotti alimentari finiti: per evitare tale deteriorazione, l’industria alimentare impiega antiossidanti sintetici nel processo produttivo. Ovviamente, poichè questi sono composti chimici sintetici, vi sono molti interrogativi riguardo alla loro potenziale tossicità e a possibili effetti collaterali.

Lo studio condotto dai ricercatori spagnoli potrebbe essere molto importante ad esempio nell’applicazione di sostanze antiossidanti in alimentazione o nella conservazione dei prodotti industriali, per i quali oggi si usano solo sostanze sintetiche: l’alternativa dei chiodi di garofano, oltre ad essere naturale ed economica, risulterebbe così soprattutto utile e preservare la salute dei consumatori finali. (Fonte: http://www.eurekalert.org)

Il massiccio impiego alimentare dei chiodi di garofano andrebbe collocato a partire dal XVIII sec. e in cucina essi occupano tuttora un posto di primissimo piano, specie negli arrosti classici, ma accompagnano anche marinate di selvaggina, brodi (in particolare di pollo o gallina) e talvolta formaggi stagionati; si sposano bene anche con alcune verdure dolci, come cipolle, cipolline e carote.
Sono utilizzati nei dolci e nella frutta cotta, per aromatizzare il famoso vin brulè, ma anche nelle preparazioni a base di carne a lunga cottura (stracotti, salmì, stufati) e nelle conserve; rappresentano inoltre uno degli ingredienti del curry e del “garam masala” (una mistura di spezie tipica della cucina indiana e pakistana).
Tra i piatti più noti ricordiamo alcuni dolci di frutta, soprattutto di mele, pandolci e panpepati, biscotti, creme e farciture, liquori e vini aromatici.
Sono usati per aromatizzare il tè, alcuni infusi e nelle tisane, vengono utilizzati anche per preparare bevande corroboranti e scaldanti da bere nei periodi invernali.

Mustazzoli (o Mostaccioli), dolci tipici della cucina pugliese.

Non possiamo concludere questa nostra ampia carrellata sulle proprietà e le virtù dei chiodi di garofano senza aver prima fatto cenno almeno ad una delle tante ricette tipiche salentine in cui la spezia viene utilizzata, quella dei Mustaccioli (altrimenti noti come Scaiozzi).

Ingredienti:
1 kg di farina, 1 kg di mandorle, 800 gr di zucchero, 2 chiodi di garofano, un pizzico di cannella, 100 gr di olio extravergine di oliva, la scorza grattugiata di un limone, la scorza grattugiata di una mandarino, 5 uova, 6 cucchiai di cacao, 2 bustine di lievito, latte, 100 gr di ammoniaca, rhum.

Preparazione:
Si macinino i chiodi di garofano e si tengano da parte. Si tostino le mandorle in forno e si tengano da parte. Si faccia scaldare l’olio in una casseruola con le scorze grattugiate degli agrumi. Si setacci la farina a fontana sulla spianatoia, si mettano al centro il succo degli agrumi e le rispettive scorze grattugiate, i chiodi di garofano macinati, un pizzico di cannella ed il cacao. Si faccia un primo impasto quindi si rifaccia una fontana e si metta al centro l’ammoniaca sciolta con un po’ di latte caldo, l’olio che è servito per scaldare le scorze di agrumi con tutti i residui degli stessi, le mandorle tostate e rese in granella con un frullatore, le due bustine di lievito ed un bicchierino di rhum. Si impasti bene il tutto e quando gli ingredienti siano ben amalgamati tra loro, con un impasto che non risulti tanto duro (nel qual caso unire un po’ di latte), si facciano i mustazzoli, di forma rotonda o allungata; si poggino sulla placca del forno leggermente unta di olio e spolverata di farina e si metta in forno gia caldo a 170° per 25 minuti.

Una volta cotti rivestirli col fondente al cioccolato…e buon appettito a tutti!

Testo di: Francesco Lacarbonara

Articolo già pubblicato dall’autore sul sito della Fondazione Terra d’Otranto al quale si rimanda per i crediti e le referenze fotografiche.

Albero di olivo con trullo

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Costruito tra il 1150 e la fine del 1200, il duomo di San Corrado di Molfetta rappresenta un singolare esempio di architettura romanico-pugliese. Lo schema architettonico, con cupole in asse e semibotti sulle navate laterali, ricorda quello largamente diffuso nell’XI secolo in molte chiese monastiche benedettine, mentre elementi bizantini, romanici e musulmani si fondono tra loro in uno stile del tutto particolare e di non facile attribuzione. Oltre a ciò il duomo di San Corrado è la maggiore delle chiese romaniche con la navata centrale coperta a cupole in asse (tre, nel caso specifico) impostate su tamburo a pianta esagonale; le altre (comprese le quattro Basiliche Palatine) hanno la copertura del tipo a capriate e tegole sovrapposte.

Pilastri cruciformi con colonne addossate suddividono lo spazio interno del tempio (a pianta basilicale asimmetrica) in tre navate, delle quali quella centrale, come abbiamo visto, è ricoperta da tre cupole allineate e di altezza disuguale. All’esterno le cupole sono rivestite da tamburi esagonali e mostrano una peculiare copertura piramidale, formata da lamelle di pietra locale, dette chiancarelle, della stessa tipologia di quelle che ricoprono i trulli. Prima a essere costruita fu la cupola di levante, romanica, emisferica e più bassa delle altre due; quella centrale, elissoidale, è alta 24 m e mostra caratteristiche bizantine, come quella di ponente, anch’essa emisferica. La facciata principale, rivolta ad occidente, è spoglia: questo si spiega col fatto che essa dall’epoca della costruzione e fino al 1882 era a picco sul mare, così come tutto il prospetto occidentale della città vecchia (come testimoniano rare fotografie antecedenti alla costruzione della Banchina Seminario). La facciata di mezzogiorno si trova nel cortile del vecchio episcopio e mostra l’immagine di papa Innocenzo VIII, stemmi di alti prelati, tre finestre tardo rinascimentali e le statue di San Corrado e di San Nicola.

La zona absidale è racchiusa tra due maestose torri campanarie ed è ornata da un motivo di archi ciechi legati a due da archetti sulla parte cuspidale, presenta tre porte murate poste a livello del piano stradale; quella centrale, sormontata da un archetto gemino e abbellita a destra da un mascherone, è collocata sotto una grande finestra fiancheggiata da leoni stilofori. Le torri sono dette campanaria quella di mezzogiorno (perché sede fisica del campanile) e vedetta quella prossima al mare (pertinente all’Universitas,veniva utilizzata per l’avvistamento di eventuali incursioni saracene). Gemelle, di base quadrata, a tre ripiani, le torri sono alte 39 metri e aperte sui quattro lati da finestre bifore e monofore.

Il corredo artistico interno è piuttosto scarno ma non privo di interessanti elementi: un fonte battesimale del 1518, un prezioso paliotto con bassorilievo del XIV secolo, un pluteo tardo romanico in pietra del XII secolo che rappresenta una cerimonia pontificale e un altorilievo rappresentante il Redentore del XIII secolo. Di particolare rilievo è l’acquasantiera raffigurante un uomo, probabilmente un saraceno, che regge un bacile in cui nuota un pesce, simbolo ricorrente nell’iconografia religiosa. In origine il duomo fu dedicato a Maria SS. Assunta e fu l’unica parrocchia esistente a Molfetta fino al 1671. Nel 1785 la sede della Cattedrale fu trasferita all’attuale Cattedrale di Maria SS. Assunta in Cielo e da allora il Duomo Vecchio prese il nome del patrono San Corrado.

Foto:

1. Molfetta, Duomo di San Corrado

2. Interno del Duomo, controfacciata occidentale

3. Torri campanarie

4. Fonte battesimale

5. Acquasantiera

Crediti:

Testo e foto di Francesco Lacarbonara

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Piccoli funghi crescono…

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FRANCESCO LACARBONARA

da foto originale dell’autore

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Vélez Malaga 1904 – Madrid 1991

Di: Lucia Vantini

Ritratto di María Zambrano, proveniente dall’archivio fotografico della Fundación María ZAMBRANO, Velez Malaga.

Maria Zambrano non avrebbe mai incoraggiato un’attenzione alla sua persona. Sperava che il suo nome non comparisse da nessuna parte: le interessava solo scrivere ed esistere per i suoi amici e «per coloro che si presentano con il cuore aperto». Eppure, davanti ai suoi testi così traboccanti di sapienza, si ha la certezza che assecondare questa sua ritrosia sarebbe un grave torto per l’intera umanità.

Maria Zambrano nata da una famiglia di maestri nella terra assolata dell’Andalusia – terra di incrocio di Ebrei, Arabi, Gitani – è stata una filosofa nel senso più profondo del termine: era convinta che al mondo non avrebbe potuto fare altro che «vivere pensando» e, occorre aggiungere, “da donna”, cioè guardando le cose «attraverso l’anima».

Dal 1921, Maria Zambrano frequenta la facoltà di filosofia presso l’Università centrale di Madrid e dal 1931 al 1936 vi lavora come assistente alla cattedra di metafisica. Il suo percorso viene segnato dalle lezioni di Zubiri, Garcia Morente e soprattutto di Ortega y Gasset, che sarà per lei un vero e proprio maestro, rispetto al quale riuscirà però a trovare, non senza qualche piccolo conflitto, un cammino totalmente personale: la filosofia non poteva essere ripetizione o imitazione, ma sempre interpretazione a partire dalla propria esperienza. Fin dagli anni universitari intreccia filosofia e politica, pubblicando vari articoli in difesa della Repubblica, per scongiurare, e poi contrastare, la dittatura. Emblematicamente, il suo ultimo scritto, pubblicato nel novembre 1990, è I pericoli per la Pace, composto di fronte all’orrore della guerra nel Golfo Persico. Perseguitata dal regime franchista, vive gran parte della sua vita in esilio: dal 1939, e per 45 lunghissimi anni, si sposta continuamente per vari Paesi. Nel 1936 si trova a Santiago del Cile, dopo il matrimonio con il diplomatico Alfonso Rodriguez Aldave (dal quale si separerà dieci anni dopo).

Solo nel 1984, finalmente, può tornare in Spagna. Non vuole un’accoglienza ufficiale, ma solo alcuni amici. L’esilio è stato un dramma, segnato dall’apprensione affettiva e dalla precarietà economica, ma anche un’esperienza di rivelazione che farà per sempre parte di lei. Spogliata di tutto, dello spazio in cui abitare e del tempo della libertà, le appare di accedere alla rivelazione della vera fisionomia della natura umana: siamo tutti «nati a metà», esseri incompiuti che non hanno mai finito di nascere. Eppure, nonostante la tragicità del momento che assomigliava tanto ad una morte in vita, Zambrano trova in sé un’energia di resistenza: una certa «fame di nascere del tutto» continua a spingere la sua anima verso la speranza di una nuova rigenerazione.

Una volta a casa, la sua attività è intensa, circondata da amici e collaboratori. Nel 1987, viene insignita del dottorato honoris causa dall’Università di Malaga e l’anno dopo le viene conferito il prestigioso premio Cervantes. Nel 1989, nasce a Vélez Malaga la Fondazione che tutt’ora porta il suo nome. Due anni dopo, si spegne in un ospedale di Madrid. Per sua volontà, la lapide porta incisa una frase del Cantico dei Cantici, emblema di quella fiducia nelle rinascite che attraversa fin dall’inizio tutta la sua filosofia: «surge, amica mea, et veni».

Questa pensatrice poliedrica si è ovviamente occupata di molti temi che, in sintesi, si potrebbero distribuire secondo tre direttrici: teoretica, religiosa e politica.

Maria Zambrano critica la filosofia contemporanea per il divorzio fra logica ed esistenza ed è convinta che «ogni verità pura, razionale e generale, deve sedurre la vita; deve farla innamorare»: una filosofia sganciata dal mondo è vuota, sterile e asfittica, mentre la vita, senza una parola che la rischiari, la potenzi, la innalzi o dichiari i suoi fallimenti, si disperde nel nonsenso e in ordini simbolici stranieri. Un pensiero così incarnato arriva fino alle viscere e si snoda, senza dualismo, fra passività e attività: mai immunizzato rispetto al mondo, da un lato si lascia ferire e modificare dalle realtà con cui entra in contatto, fossero anche le più piccole, e dall’altro, paradossalmente proprio attraverso quest’aderenza pensante, diviene attivo e crea uno squilibrio che scombina – ma anche polarizza in altro modo – la realtà, offrendo imprevedibilmente aperture e squarci dapprima impossibili. La filosofia di Maria Zambrano vuole dunque essere poetica, pensiero che vive «secondo la carne» e non si stacca né dalle cose né dall’origine, e materna in quanto disponibile a rinunciare alla dialettica e all’astrazione per mantenersi aderente al concreto, accogliente e generante. Sarà questa ratio a condurre Zambrano sui sentieri del sacro, oscura e viscerale matrice della vita. Da un lato, il sacro affascina perché può salvare, ma dall’altro terrorizza, perché può distruggere. Cercando di gestire quest’inquietante ambiguità, la filosofia ha oscillato tra un atteggiamento di rimozione e uno sforzo di nominazione che lo rendesse divino, cioè in qualche modo avvicinabile. Oggi, scrive Zambrano, l’Occidente non fa più questo lavoro di tessitura: gli uomini raccontano la loro storia, esaminano il loro presente e progettano il loro futuro senza tener conto di Dio o di qualunque forma di eccedenza. Tutt’al più, mantengono un pallido ricordo del Dio cristiano, ma solo del suo lato potente e creatore e mai di quello oblativo che l’ha portato a donarsi loro in pasto. Pensando di poter assumere tale potenza, essi hanno rinnegato la propria creaturalità, per rifare il mondo a loro misura. Tuttavia, smettendo di essere figli hanno soffocato la propria umanità e si sono votati ad un destino di distruzione, lasciando un’Europa violenta e agonizzante, che ha realizzato la democrazia solo a parole.

Maria Zambrano, allora, consegna all’Occidente un’eredità impegnativa: realizzare un mondo effettivamente democratico, dove ciascuno e ciascuna possa essere persona, unica realtà che davvero conti, perché solo nella persona «il futuro si fa strada». L’avvenire auspicabile dovrà essere una sinfonia, un’armonizzazione delle differenze che, per essere davvero incontrate e non malamente sopportate, domandano pietà, cioè «sapienza di trattare con il diverso, con ciò che è radicalmente altro da noi».

Quello che Maria Zambrano offre è allora una filosofia della speranza: il sapere delle cose della vita è stato per lei frutto di lunghi patimenti, ma fino alla fine è rimasta certa che tale sapere «può – anzi dovrebbe – sgorgare dall’allegria e dalla felicità».

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Maria Zambrano:

S. Zucal, Maria Zambrano. Il dono della parola, Milano, Bruno Mondadori 2009.

Sito della Fondazione di Vélez-Malag

Referenze iconografiche:

Ritratto di María Zambrano, proveniente dall’archivio fotografico della Fundación María ZAMBRANO, Velez Malaga.

Immagine in pubblico dominio.

Fonte: enciclopediadelledonne.it

Licenza: Creative Commons CC BY-NC-SA 4.0.

Pensiero errante: una questione di termini

Pubblicato: 11 febbraio 2024 da Francesco Lacarbonara in Diario di bordo

Spulciando tra le pagine di un dizionario qualsiasi (in questo caso il mitico Pittano, bi-dizionario italiano linguistico e grammaticale, Calderini, Bologna) alla voce errante leggiamo: part. e agg. Che erra. Che va ramingo, che va peregrinando. Già questo sarebbe sufficiente a far sorgere qualche domanda sul perché mai si debba attribuire alla categoria del pensiero […]

Pensiero errante: una questione di termini

La preghiera è un dialogo tra due partners: l’uomo e Dio. Un dialogo che è mutato a seconda dei tempi e che si è riempito di formule, linguaggi e contenuti diversi. Soprattutto, la preghiera è sempre stata strettamente legata alla fede, seguendone, perciò i destini tra crisi e risvegli. La presente crisi di fede ha perciò imposto una crisi della preghiera. Che cosa resta dunque oggi della preghiera se non uno stare in disparte come Elia presso il torrente Charit?
Elia è la parabola della preghiera. Egli attendeva il Signore nel silenzio e Dio rispondeva. Forse l’uomo d’oggi per ricominciare a pregare deve solo mettersi in disparte e attendere. Non sa più cosa dire a- Dio, non sa più cosa chiedere, non sa come fare la preghiera. Preso dal ritmo febbricitante della vita, stufo dei linguaggi usati e consumati, quasi sempre oratore e quasi mai ascoltatore, se vuole garantirsi una continuità di fede stia gratuitamente in disparte e attenda. Non più un corvo, ma lo Spirito, mattino e sera, verrà a dargli del cibo, il pane del deserto: la preghiera. L’autore non pensa di aver detto cose nuove, né si vuole collocare nella scia dei maestri spirituali che sanno dare ricette ai cristiani di tutti i giorni. Vuole semplicemente narrare e dichiarare il suo cammino nell’esperíenza della preghiera. Esperienza monastica anche, ma di chi, non separato dagli uomini né geograficamente né cultualmente, vive lavorando e riposando nello sforzo quotidiano compiuto con dei fratelli di ascoltare la voce dell’Evangelo. L’autore infine non è sicuro di aver capito bene che cosa sia la preghiera e quindi mormora ogni giorno: « Signore, insegnami a pregare! »

Enzo Bianchi
Il corvo di Elia
© edizioni Gribaudi, 1972

Fonte:  Il blog di Enzo Bianchi – Libri

Responsabilità

Pubblicato: 4 giugno 2016 da Francesco Lacarbonara in La stanza di Sophia, Tra cielo e terra
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vaticanoterzo

RaissaEmmanuelSimone-241x300 Un giovane Lévinas con la moglie e la figlia

Emanuel Lévinas (1906-1995) testo tratto da un’intervista (per l’integrale, clicca qui)

La responsabilità di cui parlo è assai più paradossale. Il punto su cui insisto è che quando si è responsabili, si risponde sempre di un altro uomo. Noi, certo, possiamo ignorarlo, ma in realtà siamo responsabili anche di ciò che è successo poco fa a colui che è passato vicino a noi. Questa è la responsabilità. Noi siamo responsabili, come se fossimo colpevoli di fronte a tutti gli altri. Cito, a questo proposito, ancora una volta, il “versetto” – perché nei grandi scrittori le proposizioni sono dei versetti e di conseguenza i versetti sono assai spesso le proposizioni dei grandi autori – la frase di Dostojevskij: “Siamo tutti colpevoli – non responsabili, colpevoli – di tutto verso tutti ed io più di tutti gli altri”. Questo “io più che tutti…

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Il futuro ha un cuore di tenda

Pubblicato: 6 aprile 2016 da Francesco Lacarbonara in Tra cielo e terra
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Dopo la mietitura

Balla di fieno con fico

 

“Ciascuno di noi deve adottare verso se stesso questa medesima attività germinale, positiva, solare, gloriosa, vitale. Preoccupiamoci prima di tutto non dei difetti, delle debolezze che mordono la nostra vita, ma di nutrire un amore grande, di avere ideali forti, di coltivare venerazione profonda per le forze di bontà, di attenzione, di misericordia, di accoglienza, di libertà, di giustizia, di pace che Dio ha seminato dentro di noi.

Facciamo che esse erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro bellezza, in tutta la loro carica vitale, e vedremo le tenebre diradarsi e la zizzania senza più terreno. E tutto il nostro essere fiorirà nella luce.

Dobbiamo conquistare lo sguardo di Dio: gli occhi dei suoi figli, Dio li vuole pieni di dolce speranza, come i suoi, volti al futuro.

Allora guardo gli altri come li guarda Dio, cerco germogli di buon grano, l’orma viva del sole, il positivo, la spiga immancabile, la spiga certa, il lievito inflessibile, il granellino di senapa irresistibile e tenace. Solo il bene rivela l’uomo. La zizzania non è verità, è parassita, è nemica. Il male non è rivelatore della verità dell’uomo. (…)

Perché agli occhi di Dio, una spiga di buon grano, che maturerà all’inizio dell’estate, conta più di tutta la zizzania del campo, che scolora la primavera di adesso.”

Tratto da: Ermes Ronchi, Il futuro ha un cuore di tenda, a cura di Luca Buccheri, Edizioni Romena, 2010

Fraternità di Romena

L’ultimo Giornalino: L’infinita pazienza di ricominciare – Dicembre 2015

Foto di

Francesco Lacarbonara 

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Balla di fieno con fico è un’opera distribuita con Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International License.

Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso Passaggio a Sud-Est – Note Legali.

Il cattivo funzionamento delle cose

Pubblicato: 18 marzo 2016 da Redazione pse in Diario di bordo

vaticanoterzo

2-Genn-Basil-the-Great-e1451687564266-550x400_cBasilio di Cesarea (329-397) Omelia in tempo di fame e di siccità, in PG 31, 309ss:

“Quale dunque la causa di tutti questi disordini e di tutte questi rivolgimenti?… Forse dobbiamo addurre il motivo che manca chi abbia il governo dell’universo? Forse che Dio, il più grande dei creatori, si è dimenticato della storia?…

No: la causa del cattivo funzionamento delle cose è evidente e sta davanti ai nostri occhi: il fatto che noi riceviamo e non doniamo a nessuno.

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