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Albero di olivo con trullo

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Francesco Lacarbonara

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Costruito tra il 1150 e la fine del 1200, il duomo di San Corrado di Molfetta rappresenta un singolare esempio di architettura romanico-pugliese. Lo schema architettonico, con cupole in asse e semibotti sulle navate laterali, ricorda quello largamente diffuso nell’XI secolo in molte chiese monastiche benedettine, mentre elementi bizantini, romanici e musulmani si fondono tra loro in uno stile del tutto particolare e di non facile attribuzione. Oltre a ciò il duomo di San Corrado è la maggiore delle chiese romaniche con la navata centrale coperta a cupole in asse (tre, nel caso specifico) impostate su tamburo a pianta esagonale; le altre (comprese le quattro Basiliche Palatine) hanno la copertura del tipo a capriate e tegole sovrapposte.

Pilastri cruciformi con colonne addossate suddividono lo spazio interno del tempio (a pianta basilicale asimmetrica) in tre navate, delle quali quella centrale, come abbiamo visto, è ricoperta da tre cupole allineate e di altezza disuguale. All’esterno le cupole sono rivestite da tamburi esagonali e mostrano una peculiare copertura piramidale, formata da lamelle di pietra locale, dette chiancarelle, della stessa tipologia di quelle che ricoprono i trulli. Prima a essere costruita fu la cupola di levante, romanica, emisferica e più bassa delle altre due; quella centrale, elissoidale, è alta 24 m e mostra caratteristiche bizantine, come quella di ponente, anch’essa emisferica. La facciata principale, rivolta ad occidente, è spoglia: questo si spiega col fatto che essa dall’epoca della costruzione e fino al 1882 era a picco sul mare, così come tutto il prospetto occidentale della città vecchia (come testimoniano rare fotografie antecedenti alla costruzione della Banchina Seminario). La facciata di mezzogiorno si trova nel cortile del vecchio episcopio e mostra l’immagine di papa Innocenzo VIII, stemmi di alti prelati, tre finestre tardo rinascimentali e le statue di San Corrado e di San Nicola.

La zona absidale è racchiusa tra due maestose torri campanarie ed è ornata da un motivo di archi ciechi legati a due da archetti sulla parte cuspidale, presenta tre porte murate poste a livello del piano stradale; quella centrale, sormontata da un archetto gemino e abbellita a destra da un mascherone, è collocata sotto una grande finestra fiancheggiata da leoni stilofori. Le torri sono dette campanaria quella di mezzogiorno (perché sede fisica del campanile) e vedetta quella prossima al mare (pertinente all’Universitas,veniva utilizzata per l’avvistamento di eventuali incursioni saracene). Gemelle, di base quadrata, a tre ripiani, le torri sono alte 39 metri e aperte sui quattro lati da finestre bifore e monofore.

Il corredo artistico interno è piuttosto scarno ma non privo di interessanti elementi: un fonte battesimale del 1518, un prezioso paliotto con bassorilievo del XIV secolo, un pluteo tardo romanico in pietra del XII secolo che rappresenta una cerimonia pontificale e un altorilievo rappresentante il Redentore del XIII secolo. Di particolare rilievo è l’acquasantiera raffigurante un uomo, probabilmente un saraceno, che regge un bacile in cui nuota un pesce, simbolo ricorrente nell’iconografia religiosa. In origine il duomo fu dedicato a Maria SS. Assunta e fu l’unica parrocchia esistente a Molfetta fino al 1671. Nel 1785 la sede della Cattedrale fu trasferita all’attuale Cattedrale di Maria SS. Assunta in Cielo e da allora il Duomo Vecchio prese il nome del patrono San Corrado.

Foto:

1. Molfetta, Duomo di San Corrado

2. Interno del Duomo, controfacciata occidentale

3. Torri campanarie

4. Fonte battesimale

5. Acquasantiera

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Testo e foto di Francesco Lacarbonara

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Piccoli funghi crescono…

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Tramonto in Valle d’Itria

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…dal Lungomare Vittorio Emanuele III di Taranto

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il rosso…

Rosso papavero

Giallo ginestra

…e il giallo


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Universum - C. Flammarion, intaglio in legno, Parigi 1888.

Spulciando tra le pagine di un dizionario qualsiasi (in questo caso il mitico Pittano, bi-dizionario italiano linguistico e grammaticale, Calderini, Bologna) alla voce errante leggiamo: part. e agg. Che erra. Che va ramingo, che va peregrinando. Già questo sarebbe sufficiente a far sorgere qualche domanda sul perché mai si debba attribuire alla categoria del pensiero un tale attributo. Andando avanti però il Pittano ci offre altre possibili, e suggestive, chiavi di lettura. Infatti, sempre alla voce errante, troviamo: Stelle erranti i pianeti. Vagante, incerto: sguardo errante. Cavaliere errante cavaliere del Medio Evo che andava in cerca di avventure. Ce n’è abbastanza di che lambiccarsi il cervello, cerchiamo allora di fare un pò di luce sulla questione.

Che errare sia umano, e perseverare (chissà poi perché) diabolico, è cosa nota; quindi sul fatto che il pensiero cada in errore non ci dovrebbero essere problemi. Anzi si può dire che proprio sull’errore, sulla falsificabilità di una teoria scientifica, si sia andata fondando la scienza moderna, almeno secondo Popper. In altre parole: i fatti della scienza vengono sottoposti prima al vaglio della sperimentazione secondo canoni e criteri (ormai resi standard da protocolli internazionali) per dare luogo a teorie scientifiche che rimangono valide finchè nuovi fatti, e quindi nuove teorie, non le sostituiscono (giusto per intenderci: sistema aristotelico-tolemaico vs sistema copernicano) e così via.

Se l’errore, o meglio il dubbio come motore di ricerca per consentire il prosieguo nel cammino del sapere, è entrato a buon diritto nel campo della scienza (scalzando da essa ogni pretesa fideistica, retaggio di una non lontana ideologia positivista tradottasi in tempi moderni in un esasperato tecnicismo) figuriamoci allora quale possa essere il suo peso in altri campi (quali ad esempio la filosofia, la teologia, l’arte, e in genere tutte l’esperienze di cui lo spirito umano è capace) che quasi per loro natura si sottraggono ad una piena e completa analisi razionale, nonostante tutti gli sforzi finora compiuti. Ecco allora che a venirci incontro, per dipanare il bandolo di una matassa che si è andata un pò troppo ingarbugliandosi, sono le altre figure linguistiche che possiamo avvicinare alla parola errante, o alla categoria dell’errante.

Frontespizio della prima edizione del Sidereus Nuncius (Venezia, Baglioni, 1610).

Errante è colui che va peregrinando, ramingo per le vie del mondo, non perchè privo di meta (se così fosse sarebbe per lui vana la fatica stessa che il cammino inevitabilmente comporta) ma perchè fa del cammino stesso la propria meta, in un continuo ri-cercare sensi e significati dell’umana esperienza, anche quando a volte sembra che questi gli sfuggano inesorabilmente (ma è forse proprio da ciò che egli trae nuova linfa per continuare il cammino). Errante è lo sguardo che vaga incerto sulla scena del mondo, ma che non smette di spostarsi da un punto all’altro del proprio campo visivo, pronto a soffermarsi, se necessario, su un dato particolare, ma disposto anche, se la situazione lo richiede, a cambiare il proprio punto di vista per guadagnare una nuova prospettiva. Perchè a volte le cose si vedono meglio se ci si allontana da esse, rinunciando a una comprensione piena dei particolari per guadagnare una visuale d’insieme del tutto (fatti salvi sempre i limiti fisiologici che la visione comporta, di qualunque mezzo e natura essa sia).

Errante è la stella (il pianeta) che si sottrae alle leggi eterne ed immutabili del cosmo per compiere impreviste e anomale traiettorie (a dispetto di quelle cosiddette fisse, ligie ai compiti ad esse assegnate dall’architetto divino) e che pone non pochi problemi allo scrutatore del cielo, invano intento a formulare ipotesi ad hoc che salvino almeno le apparenze. Ma forse il cielo non è poi così lontano dalla Terra, e la sua natura diversa dalla nostra, se un matematico pisano ha l’ardire di puntare un tubo di metallo provvisto di lenti verso la Luna, e restare forse deluso dal non scorgere in essa nessun’altra forma di vita, se non solo terra e sassi e valli e montagne, proprio come qui giù da noi (ma ne valeva la pena). Ed infine errante è il Cavaliere (non quello di Arcore) che vaga in cerca di avventure, che non siano uscire illesi da un centro commerciale il primo giorno di apertura dei saldi o sopravvivere alla visione di un’intera puntata di un qualsiasi talk televisivo, soprattutto se ha come ospiti eminenti e integerrimi uomini politici con l’immancabile contorno di veline incomprese nelle loro aspirazioni artistiche (l’accoppiata è puramente casuale).

God Speed! (1900, Edmund Blair Leighton)

Per concludere: errante è sì il pensiero che vaga, ma perchè senza una meta prestabilita dai pregiudizi e dalle ideologie, proprie o altruiErrante è anche il pensiero che continua inesorabile a ricercare la verità, caparbiamente fiducioso e al contempo  consapevole dei limiti dell’umana natura, mosso solo dalla curiosità e da un pizzico di sana follia, che in fondo non guasta mai.

L’auspicio è quello di poter ospitare su queste pagine riflessioni, considerazioni e opinioni libere da qualsivoglia pregiudizio e/o ideologie ma al contempo rispettose, sempre, del pensiero come della sensibilità altrui.

Perchè il Cavaliere sarà pure errante ma che non lo sia però in una valle solitaria, a meno che non vesta i panni del protagonista di un noto film western…ma questa è un altra storia.

Crediti:

Universum, C. Flammarion, Holzschnitt, Paris 1888; Colorazione: Heikenwaelder Hugo, Wien 1998; licenza: Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 2.5 Generico.

– Frontespizio del Sidereus Nuncius e Edmund Blair Leighton, God Speed!, 1900: pubblico dominio.




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Che il viaggio abbia inizio…

Pubblicato: 20 febbraio 2010 da Francesco Lacarbonara in Diario di bordo
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20 febbraio 2010

Castel del Monte (Andria)

Fredda serata invernale con un accenno di nebbia e una fastidiosa pioggerella sottile a completare l’atmosfera. Non siamo in una brughiera scozzese ma nel bel mezzo delle Murge Sud-Orientali, e se dovessimo sentire in lontananza l’eco di un inquietante ululato non avremmo nulla da preoccuparci: sarà il solito cane pastore simil-abbruzzese che vagabonda pigramente al termine di un’altra estenuante giornata di lavoro (le pecore pugliesi, è noto a tutti, sono maledettamente indisciplinate). Forse non è il momento adatto per mettersi in viaggio, ma tant’è, oramai tutto è pronto e la decisione è già presa, il più è fatto e non resta che avviarci.  Può darsi che durante il cammino incontreremo altri viandanti ai quali unirci, oppure dovremo proseguire il nostro viaggio ancora per un po’ in solitaria.  Se poi Giove Pluvio non ci sarà propizio, o se la stanchezza del lungo peregrinare lo richiederà, avremo modo di fermarci a riposare un po’: magari al caldo di un’ospitale locanda o al sicuro tra le mure di un convento alle cui porte (da bravi pellegrini) avremo bussato, alla ricerca di ristoro per il fisico e salute per l’anima. Sarà una buona occasione per ripensare al cammino fino allora compiuto e se dovesse essere necessario per rifare la rotta, semmai una fu mai tracciata. Perché (come è giusto che sia) in ogni viaggio quello che conta davvero non è la  meta da raggiungere ma la strada che si percorre e i compagni con cui la si condivide (lo so la frase non è originale ed è sfruttatissima, ma mi piaceva e l’ho voluta usare ugualmente). Coraggio allora, il cammino è lungo e i luoghi da visitare  (…fisici, metafisici!?) sono tanti, pronti ad accoglierci con il loro ricco bagaglio di storia da scoprire, o riscoprire, ancora una volta . Ci accompagni la speranza che nulla vada disperso di quanto finora raggiunto e la consapevolezza di poter contare su una terra, la nostra, nella quale affondare le radici con sicurezza, certi che non mancherà di alimentare ancora una volta la nostra curiosità e il nostro essere pensatori erranti tra le pieghe della memoria e gli spazi illimitati dello spirito…e che il viaggio abbia inizio!

 

 

 

 

Crediti

Castel del Monte (Andria), Francesco Lacarbonara – MMX –

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