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Eugenia caryophyllata L.

Il loro nome non tragga in inganno. Come molti già sapranno, infatti, i chiodi di garofano nulla hanno a che vedere con il ben noto fiore, il garofano comune (Dianthus caryophyllus) simbolo di promessa di matrimonio, pegno d’amore e della Passione di Gesù.

I chiodi di garofano derivano invece dai boccioli fiorali, raccolti ed essiccati, dell’Eugenia caryophyllata (sin. Syzygium aromaticum, Caryophyllus aromaticus,Eugenia caryophyllus), albero sempreverde appartenente alla vasta famiglia delle Myrtaceae. Originario delle Molucche e diffuso spontaneamente nelle Isole Reunion, Antille, Madagascar e in Indonesia, oggi viene coltivato in molte aree tropicali: Antille, Africa orientale, Cina e Zanzibar, l’isola africana “delle spezie” e maggior produttrice mondiale per la quale rappresenta la migliore risorsa economica.

Fiori di Eugenia caryophyllata

Alto 10-15 m mostra una chioma tondeggiante, foglie ovato-lanceolate, opposte, di color rossastro da giovani che diventano con il passare del tempo di una tonalità verde scuro; viste in trasparenza mostrano numerosi puntini traslucidi, ricchi di olio essenziale. I fiori sono riuniti in corimbi ad ombrello: da un lungo calice rosso acceso sboccia un fiorellino bianco, dall’aspetto piumoso; ai fiori seguono piccole bacche rossastre. Una volta essiccati i singoli fiori assumono una forma che ricorda vagamente quella di un garofano, da qui il nome della famosa spezia. Ogni singolo chiodo di garofano è formato dal lungo calice gamosepalo, formato da 4 sepali e da 4 petali ancora chiusi che formano la parte tonda centrale. La prima raccolta dei bocci (che viene effettuata a mano in tarda estate ed in inverno) si ha dopo 6-8 anni dalla piantagione dell’albero, che poi produrra’ circa 34 chili di prodotto essiccato all’anno.

Boccioli essiccati

I boccioli essiccati hanno colore bruno e consistenza legnosa, si utilizzano interi, oppure vengono macinati, preferibilmente appena prima dell’utilizzo, per evitare la dispersione degli oli aromatici: emanano infatti un profumo forte, dolce e fiorito, con una punta di pepato e di “caldo”, mentre il gusto può ricordare quello degli infusi di carcadè. Ricordiamo ancora che i chiodi di garofano non vanno confusi col pepe garofanato, altrimenti noto come pimento, altra spezia ricavata dai frutti essiccati della Pimenta dioica, albero sempreverde, anch’esso della famiglia delle Myrtaceae e originario della Jamaica, importato da Cristoforo Colombo in Spagna pensando che fosse pepe.

Molto diffusi in Oriente i chiodi di garofano erano già utilizzati nella Cina di 2200 anni fa per le loro proprietà medicamentose. Il Meyers, antico segretario della legazione britannica a Pechino, potè assodare come essi fossero già citati da diversi scrittori cinesi, alcuni secoli prima di Cristo. Lo stesso riferì come gli ufficiali della corte usassero masticare alcuni chiodi di garofano prima di presentarsi al loro sovrano, affinchè il loro alito fosse gradevole. I cinesi chiamavano queste spezie col nome di “spezie a lingue di uccelli”, mentre oggi il loro nome volgare “Ting-hiang” vuol dire chiodi-profumo o chiodi-spezie. La medicina moderna ha confermato la validità di questa tradizione utilizzandone l’essenza nei disinfettanti orali.

In Occidente tracce di questa spezia risalenti al XVIII secolo a. C. sono state ritrovate in Siria, ma le sue proprietà farmacologiche e aromatiche vennero ignorate a lungo da greci e latini. Sembra che furono gli Arabi nel IV sec. ad introdurla, esaltandone il valore e la provenienza mitologica ed è del VI sec. la prima testimonianza archeologica, rinvenuta in Alsazia, in una tomba contenete una piccola scatola d’oro racchiudente due chiodi di garofano. Il mito di questa spezia crebbe con il tempo, come il loro valore: nel Medioevo veniva consigliata per combattere dolori frequenti e comuni, come il mal di testa o il mal di denti, e una manciata di chiodi di garofano poteva valere anche mezzo bue o un montone.

In Europa arrivò tramite la “via dell’incenso” e Dante ne dà una preziosa testimonianza, condannando il comportamento scialacquatore di un ricco senese del Duecento:

“… e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoperse
nell’orto dove tal seme s’appicca;
e tra ‘ne la brigata in che disperse”

(Inf. XXIX, 127-129)

Guido Cavalcanti e la brigata godereccia, miniatura del XV secolo

I versi si riferiscono ad un gruppo di dodici ricchi senesi, tra i quali Niccolò (da alcuni identificato con Niccolò dei Salimbeni) che saputo essere prossima la fine del mondo decisero di godersi la vita affrettandosi a spendere il molto denaro posseduto. Furono soprannominati la Brigata spendereccia (o godereccia) e il nome di Niccolò venne legato ai chiodi di garofano che avrebbe fatto importare dall’Oriente per aromatizzare la selvaggina. Secondo l’interpretazione del Landino, commentatore quattrocentesco, il giovane senese fece addirittura arrostire la carne non su legno ma su brace di chiodi di garofano per mandare in fumo una cifre astronomica.
Nel Medioevo si faceva uso di un qualche tipo di chiodi di garofano, chiamati gariofili, anche per scopi terapeutici. La Scuola Medica Salernitana li valutava una vera e propria panacea, efficace per combattere la fatica mentale o la perdita di memoria. Si credeva addirittura che le arance nelle quali fossero stati conficcati dei chiodi di garofano proteggessero dalla peste e a tale scopo, a Napoli, si preparavano pastiglie con questa spezia. (Fonte: www.taccuinistorici.it)

A tal proposito merita di essere ricordata la curiosa vicenda legata al cosiddetto Olio dei Ladruncoli.

Correva l’anno 1413 e la peste bubbonica imperversava in Europa. Quattro ladri furono catturati e accusati di rubare ai morti e alle vittime moribonde. Durante il processo il magistrato offrì loro la clemenza se avessero rivelato come avessero fatto a resistere all’infezione, mentre realizzavano atti così spaventosi. I quattro raccontarono allora che erano profumieri e commercianti di spezie e che avevano sfregato sulle proprie mani, orecchie e tempie una miscela speciale di erbe aromatiche, tra le quali il chiodo di garofano e il rosmarino. Ne derivò una formula chiamata, appunto, Olio dei ladruncoli ed elaborata sulla base di ricerche condotte sui metodi dell’erboristeria del XV secolo.

A partire dal XVI sec. i chiodi di garofano iniziarono ad essere importati direttamente dagli europei grazie ai portoghesi di ritorno da Timor Est e dagli olandesi, che ne scoprirono un’ottima fonte nell’isola di Zanzibar e alle Maldive. Come già per la cannella essi divennero i principali importatori della spezia, tra le più amate e tra le più care. Gli olandesi e i belgi ne ricavarono successivamente l’olio essenziale che divenne un componente molto amato dalla cosmesi, che nei due paesi fiorì grazie anche al suo prezioso contributo.

Questa spezia, dal profumo e dall’aroma così singolare, divenne sicuramente uno dei prodotti più ricercati e cari del tempo. I medici consigliavano di metterla in infusione nel latte perché avrebbe mirabilmente aumentato le forze di Venere. I chiodi erano considerati infatti alla stregua di potenti afrodisiaci, tanto che il loro uso veniva proibito ai religiosi appartenenti ai vari ordini monastici.
I trattati medici dell’Ottocento continuarono a ritenere i chiodi di garofano validi a curare l’impotenza e ottimo rimedio anestetico da introdurre all’interno di un dente dolorante o sopra una ferita indolenzita.
Dalla droga si estrae infatti un olio essenziale considerato uno dei rimedi migliori contro stanchezza e depressione: è un ottimo tonico e un corroborante, da utilizzare in periodi di stress che danno stanchezza e spossatezza. In aromaterapia il tè di chiodi di garofano é consigliato nell’ultimo mese di gravidanza per rinforzare la muscolature dell’utero. Si ritiene inoltre che il profumo del chiodo di garofano riscaldi l’anima e allontani la malinconia, risvegli le passioni e faccia tornare la voglia di vivere; a tale scopo si può impiegare per la preparazione di un bagno caldo o per la doccia, come rivitalizzante.
Riguardo alle proprieta’ terapeutiche, l’essenza d’olio che si ottiene dai chiodi di garofano viene usato molto in odontoiatria, per le sue proprieta’ anestetiche e antisettiche: e’ utile per calmare il mal di denti, per disinfettare il cavo orale e profumare l’alito (a tale scopo si consiglia 1 goccia di olio di chiodi di garofano ed 1 di salvia su un batuffolo di cotone da applicare sulla parte dolente). Ottimo antivirale ed antibatterico è consigliato contro cistiti, faringiti, tonsilliti, coliti batteriche enterocoliti virali e spasmodiche (a questo proposito si può utilizzare durante i viaggi esotici poiché blocca gli effetti intestinali tipici). E’ anche un ottimo stimolante di calore, eccellente quindi per le persone che hanno cattiva circolazione periferica.

Arancia decorata con chiodi di garofano
Tra gli altri usi ricordiamo che una ciotolina di chiodi di garofano, mescolati a lavanda, artemisia e cannella, posta dentro la credenza dove teniamo pasta, pane, farina, terrà lontane le tarme ed eviterà che i vasi di vetro, i contenitori di plastica o le borse termiche, che per un po’ di tempo non vengono utilizzati, prendano un cattivo odore. In alternativa alla ciotolina i chiodi di garofano possono essere piantati sulla superficie di una mela, di un arancia o di un limone, e poi riposti nell’armadio o nella credenza.
Ma la vera sorpresa è data dal loro potere antiossidante (ORAC) tra i piu’ elevati in assoluto, con un indice di valore pari a 314446, circa 80 volte piu’ potente di una mela, che già di per sè è considerata un ottimo antiossidante. La conferma viene fornita da alcuni ricercatori spagnoli della Miguel Hernández University (UMH) di Elche che hanno indicato i chiodi di garofano come la più potente spezia antiossidante, in virtù del fatto che contengono elevati livelli di composti fenolici, in particolare eugenolo.

Juana Fernández-López, una degli autori dello studio pubblicato sulla rivista “Flavour and Fragrance Journal”, ha affermato che: “Tra le 5 differenti capacità antiossidanti che abbiamo testato, i chiodi di garofano hanno dimostrato di possedere la più alta capacità nel ridurre la perossidazione dei lipidi e di essere il miglior agente riducente del Ferro. I risultati della ricerca suggeriscono come l’uso di tali spezie tipiche della dieta Mediterranea, o dei loro estratti, possa essere una nuova via percorribile dall’industria alimentare, nella misura in cui non siano alterate le proprietà organolettiche dei cibi prodotti. Queste sostanze mostrano una forte capacità antiossidante, e possono dare forti benefici sulla salute.”

Il team di ricerca si è soffermato anche sugli effetti antiossidanti degli oli essenziali di altre spezie, come origano (Origanum vulgare), timo (Thymus vulgaris), rosmarino (Rosmarinus officinalis) e salvia (Salvia officinalis), con l’obbiettivo di favorire l’aggiunta di tali spezie nei prodotti alimentari, in particolare nella carne, come antiossidanti naturali, al posto di quelli sintetici.

“L’ossidazione dei lipidi è una delle principali ragioni per cui i cibi deteriorano”, continua Fernández-López, “e causa una significativa riduzione del loro valore nutrizionale, oltre alla perdita del sapore originario”. Queste alterazioni conducono ad una riduzione della durata della vita dei prodotti alimentari finiti: per evitare tale deteriorazione, l’industria alimentare impiega antiossidanti sintetici nel processo produttivo. Ovviamente, poichè questi sono composti chimici sintetici, vi sono molti interrogativi riguardo alla loro potenziale tossicità e a possibili effetti collaterali.

Lo studio condotto dai ricercatori spagnoli potrebbe essere molto importante ad esempio nell’applicazione di sostanze antiossidanti in alimentazione o nella conservazione dei prodotti industriali, per i quali oggi si usano solo sostanze sintetiche: l’alternativa dei chiodi di garofano, oltre ad essere naturale ed economica, risulterebbe così soprattutto utile e preservare la salute dei consumatori finali. (Fonte: http://www.eurekalert.org)

Il massiccio impiego alimentare dei chiodi di garofano andrebbe collocato a partire dal XVIII sec. e in cucina essi occupano tuttora un posto di primissimo piano, specie negli arrosti classici, ma accompagnano anche marinate di selvaggina, brodi (in particolare di pollo o gallina) e talvolta formaggi stagionati; si sposano bene anche con alcune verdure dolci, come cipolle, cipolline e carote.
Sono utilizzati nei dolci e nella frutta cotta, per aromatizzare il famoso vin brulè, ma anche nelle preparazioni a base di carne a lunga cottura (stracotti, salmì, stufati) e nelle conserve; rappresentano inoltre uno degli ingredienti del curry e del “garam masala” (una mistura di spezie tipica della cucina indiana e pakistana).
Tra i piatti più noti ricordiamo alcuni dolci di frutta, soprattutto di mele, pandolci e panpepati, biscotti, creme e farciture, liquori e vini aromatici.
Sono usati per aromatizzare il tè, alcuni infusi e nelle tisane, vengono utilizzati anche per preparare bevande corroboranti e scaldanti da bere nei periodi invernali.

Mustazzoli (o Mostaccioli), dolci tipici della cucina pugliese.

Non possiamo concludere questa nostra ampia carrellata sulle proprietà e le virtù dei chiodi di garofano senza aver prima fatto cenno almeno ad una delle tante ricette tipiche salentine in cui la spezia viene utilizzata, quella dei Mustaccioli (altrimenti noti come Scaiozzi).

Ingredienti:
1 kg di farina, 1 kg di mandorle, 800 gr di zucchero, 2 chiodi di garofano, un pizzico di cannella, 100 gr di olio extravergine di oliva, la scorza grattugiata di un limone, la scorza grattugiata di una mandarino, 5 uova, 6 cucchiai di cacao, 2 bustine di lievito, latte, 100 gr di ammoniaca, rhum.

Preparazione:
Si macinino i chiodi di garofano e si tengano da parte. Si tostino le mandorle in forno e si tengano da parte. Si faccia scaldare l’olio in una casseruola con le scorze grattugiate degli agrumi. Si setacci la farina a fontana sulla spianatoia, si mettano al centro il succo degli agrumi e le rispettive scorze grattugiate, i chiodi di garofano macinati, un pizzico di cannella ed il cacao. Si faccia un primo impasto quindi si rifaccia una fontana e si metta al centro l’ammoniaca sciolta con un po’ di latte caldo, l’olio che è servito per scaldare le scorze di agrumi con tutti i residui degli stessi, le mandorle tostate e rese in granella con un frullatore, le due bustine di lievito ed un bicchierino di rhum. Si impasti bene il tutto e quando gli ingredienti siano ben amalgamati tra loro, con un impasto che non risulti tanto duro (nel qual caso unire un po’ di latte), si facciano i mustazzoli, di forma rotonda o allungata; si poggino sulla placca del forno leggermente unta di olio e spolverata di farina e si metta in forno gia caldo a 170° per 25 minuti.

Una volta cotti rivestirli col fondente al cioccolato…e buon appettito a tutti!

Testo di: Francesco Lacarbonara

Articolo già pubblicato dall’autore sul sito della Fondazione Terra d’Otranto al quale si rimanda per i crediti e le referenze fotografiche.

Albero di olivo con trullo

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Francesco Lacarbonara

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Costruito tra il 1150 e la fine del 1200, il duomo di San Corrado di Molfetta rappresenta un singolare esempio di architettura romanico-pugliese. Lo schema architettonico, con cupole in asse e semibotti sulle navate laterali, ricorda quello largamente diffuso nell’XI secolo in molte chiese monastiche benedettine, mentre elementi bizantini, romanici e musulmani si fondono tra loro in uno stile del tutto particolare e di non facile attribuzione. Oltre a ciò il duomo di San Corrado è la maggiore delle chiese romaniche con la navata centrale coperta a cupole in asse (tre, nel caso specifico) impostate su tamburo a pianta esagonale; le altre (comprese le quattro Basiliche Palatine) hanno la copertura del tipo a capriate e tegole sovrapposte.

Pilastri cruciformi con colonne addossate suddividono lo spazio interno del tempio (a pianta basilicale asimmetrica) in tre navate, delle quali quella centrale, come abbiamo visto, è ricoperta da tre cupole allineate e di altezza disuguale. All’esterno le cupole sono rivestite da tamburi esagonali e mostrano una peculiare copertura piramidale, formata da lamelle di pietra locale, dette chiancarelle, della stessa tipologia di quelle che ricoprono i trulli. Prima a essere costruita fu la cupola di levante, romanica, emisferica e più bassa delle altre due; quella centrale, elissoidale, è alta 24 m e mostra caratteristiche bizantine, come quella di ponente, anch’essa emisferica. La facciata principale, rivolta ad occidente, è spoglia: questo si spiega col fatto che essa dall’epoca della costruzione e fino al 1882 era a picco sul mare, così come tutto il prospetto occidentale della città vecchia (come testimoniano rare fotografie antecedenti alla costruzione della Banchina Seminario). La facciata di mezzogiorno si trova nel cortile del vecchio episcopio e mostra l’immagine di papa Innocenzo VIII, stemmi di alti prelati, tre finestre tardo rinascimentali e le statue di San Corrado e di San Nicola.

La zona absidale è racchiusa tra due maestose torri campanarie ed è ornata da un motivo di archi ciechi legati a due da archetti sulla parte cuspidale, presenta tre porte murate poste a livello del piano stradale; quella centrale, sormontata da un archetto gemino e abbellita a destra da un mascherone, è collocata sotto una grande finestra fiancheggiata da leoni stilofori. Le torri sono dette campanaria quella di mezzogiorno (perché sede fisica del campanile) e vedetta quella prossima al mare (pertinente all’Universitas,veniva utilizzata per l’avvistamento di eventuali incursioni saracene). Gemelle, di base quadrata, a tre ripiani, le torri sono alte 39 metri e aperte sui quattro lati da finestre bifore e monofore.

Il corredo artistico interno è piuttosto scarno ma non privo di interessanti elementi: un fonte battesimale del 1518, un prezioso paliotto con bassorilievo del XIV secolo, un pluteo tardo romanico in pietra del XII secolo che rappresenta una cerimonia pontificale e un altorilievo rappresentante il Redentore del XIII secolo. Di particolare rilievo è l’acquasantiera raffigurante un uomo, probabilmente un saraceno, che regge un bacile in cui nuota un pesce, simbolo ricorrente nell’iconografia religiosa. In origine il duomo fu dedicato a Maria SS. Assunta e fu l’unica parrocchia esistente a Molfetta fino al 1671. Nel 1785 la sede della Cattedrale fu trasferita all’attuale Cattedrale di Maria SS. Assunta in Cielo e da allora il Duomo Vecchio prese il nome del patrono San Corrado.

Foto:

1. Molfetta, Duomo di San Corrado

2. Interno del Duomo, controfacciata occidentale

3. Torri campanarie

4. Fonte battesimale

5. Acquasantiera

Crediti:

Testo e foto di Francesco Lacarbonara

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Piccoli funghi crescono…

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FRANCESCO LACARBONARA

da foto originale dell’autore

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Pensiero errante: una questione di termini

Pubblicato: 11 febbraio 2024 da Francesco Lacarbonara in Diario di bordo

Spulciando tra le pagine di un dizionario qualsiasi (in questo caso il mitico Pittano, bi-dizionario italiano linguistico e grammaticale, Calderini, Bologna) alla voce errante leggiamo: part. e agg. Che erra. Che va ramingo, che va peregrinando. Già questo sarebbe sufficiente a far sorgere qualche domanda sul perché mai si debba attribuire alla categoria del pensiero […]

Pensiero errante: una questione di termini

Responsabilità

Pubblicato: 4 giugno 2016 da Francesco Lacarbonara in La stanza di Sophia, Tra cielo e terra
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vaticanoterzo

RaissaEmmanuelSimone-241x300 Un giovane Lévinas con la moglie e la figlia

Emanuel Lévinas (1906-1995) testo tratto da un’intervista (per l’integrale, clicca qui)

La responsabilità di cui parlo è assai più paradossale. Il punto su cui insisto è che quando si è responsabili, si risponde sempre di un altro uomo. Noi, certo, possiamo ignorarlo, ma in realtà siamo responsabili anche di ciò che è successo poco fa a colui che è passato vicino a noi. Questa è la responsabilità. Noi siamo responsabili, come se fossimo colpevoli di fronte a tutti gli altri. Cito, a questo proposito, ancora una volta, il “versetto” – perché nei grandi scrittori le proposizioni sono dei versetti e di conseguenza i versetti sono assai spesso le proposizioni dei grandi autori – la frase di Dostojevskij: “Siamo tutti colpevoli – non responsabili, colpevoli – di tutto verso tutti ed io più di tutti gli altri”. Questo “io più che tutti…

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Il futuro ha un cuore di tenda

Pubblicato: 6 aprile 2016 da Francesco Lacarbonara in Tra cielo e terra
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Dopo la mietitura

Balla di fieno con fico

 

“Ciascuno di noi deve adottare verso se stesso questa medesima attività germinale, positiva, solare, gloriosa, vitale. Preoccupiamoci prima di tutto non dei difetti, delle debolezze che mordono la nostra vita, ma di nutrire un amore grande, di avere ideali forti, di coltivare venerazione profonda per le forze di bontà, di attenzione, di misericordia, di accoglienza, di libertà, di giustizia, di pace che Dio ha seminato dentro di noi.

Facciamo che esse erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro bellezza, in tutta la loro carica vitale, e vedremo le tenebre diradarsi e la zizzania senza più terreno. E tutto il nostro essere fiorirà nella luce.

Dobbiamo conquistare lo sguardo di Dio: gli occhi dei suoi figli, Dio li vuole pieni di dolce speranza, come i suoi, volti al futuro.

Allora guardo gli altri come li guarda Dio, cerco germogli di buon grano, l’orma viva del sole, il positivo, la spiga immancabile, la spiga certa, il lievito inflessibile, il granellino di senapa irresistibile e tenace. Solo il bene rivela l’uomo. La zizzania non è verità, è parassita, è nemica. Il male non è rivelatore della verità dell’uomo. (…)

Perché agli occhi di Dio, una spiga di buon grano, che maturerà all’inizio dell’estate, conta più di tutta la zizzania del campo, che scolora la primavera di adesso.”

Tratto da: Ermes Ronchi, Il futuro ha un cuore di tenda, a cura di Luca Buccheri, Edizioni Romena, 2010

Fraternità di Romena

L’ultimo Giornalino: L’infinita pazienza di ricominciare – Dicembre 2015

Foto di

Francesco Lacarbonara 

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Giornata della memoria 2015

Pubblicato: 27 gennaio 2015 da Francesco Lacarbonara in Diario di bordo, Fermo immagine
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27-01-1945 / 27-01-2015

giornatadellamemoria2015

per non dimenticare

(foto di: Francesco Lacarbonara)

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Il Pellegrinaggio ai Sepolcri

Posta di perdoni in adorazione davanti all’altare della reposizione

Sono le 15 del Giovedì Santo, il Pellegrinaggio ai Sepolcri sta per avere  inizio e con esso si aprono i riti della Settimana Santa di Taranto.

Dal portone principale della Chiesa del Carmine, in piazza Giovanni XXIII, escono le poste dirette a far visita ai Sepolcri allestiti nelle chiese della città vecchia; le poste dirette ai Sepolcri della città nuova escono invece dall’ingresso della sagrestia, in via Giovinazzi. L’uscita della prima posta, è fissato per le ore 15 del Giovedì Santo, seguono poi a intervalli regolari le altre coppie di perdùne – in tutto sono circa cinquanta. I confratelli avanzano a passo lentissimo, alzando quel tanto che basta, ora l’uno, ora l’altro piede, per farlo ricadere quasi sullo stesso punto della strada, accompagnandosi con un tipico, estenuante, dondolio  chiamato ‘a nazzecàte. Il completamento dell’intero percorso può richiedere così diverse ore – pur essendo relativamente breve – e il Pellegrinaggio prosegue per tutta la serata fino alla mezzanotte, per riprendere poi la mattina presto del Venerdì Santo e concludersi intorno alle undici. Può capitare, la mattina del Venerdì Santo, che i confratelli del Carmine incrocino quelli dell’Addolorata, ancora intenti nella loro Processione, uscita la mezzanotte del giorno prima dal Tempio di San Domenico nella città vecchia; quando ciò avviene si genuflettono in segno di riverenza davanti alla Croce dei Misteri e alla statua dell’Addolorata. L’ultima posta ad uscire dalla Chiesa del Carmine nella tarda serata del Giovedì Santo prende il nome di ‘u serrachiése ad indicare il compito di chiudere, serrare, le chiese per l’approssimarsi della notte. Nicola Caputo – noto studioso e appassionato cultore delle tradizioni tarantine, che ai riti della Settimana Santa ha dedicato numerose opere – avanza a tal proposito una suggestiva ipotesi: il termine serrachiése potrebbe derivare anche da“serraschiere” con il quale si indicava nell’impero ottomano il comandante supremo delle forze armate che ordinava l’uscita e, per l’appunto, il rientro delle truppe; così da serraschiere si sarebbe passati, nel nostro caso, a serrachiese (Cf  N. Caputo, I giorni del Perdono, Taranto 1995, 40).

Chiesa del Carmine, particolare

Le chiese da visitare nel giro della città nuova sono: San Francesco di Paola, SS. Crocifisso e San Pasquale. Le poste dirette ai Sepolcri della città vecchia visitano invece le chiese di San Giuseppe, San Domenico, Basilica cattedrale (San Cataldo) e Sant’Agostino. Il loro numero si è notevolmente ridotto rispetto al passato, molte di esse infatti sono state distrutte o trasformate in Rettorie, per le quali non è concesso allestire il Sepolcro. A partire dagli anni sessanta discutibili scelte di politica industriale a livello nazionale e una certa miopia da parte degli amministratori locali nel valutare il peso delle loro decisioni in fatto di gestione del territorio, hanno determinato lo spostamento in massa della popolazione tarantina dalla città vecchia verso aree periferiche, del tutto anonime e prive delle necessarie strutture di carattere associativo – i famosi “quartieri dormitorio”. La città vecchia, abbandonata da gran parte dei suoi abitanti, ha subito così un lento e inesorabile declino, il cui esito è ancora oggi davanti agli occhi di tutti, nonostante i numerosi progetti di recupero urbanistico e i tanti cantieri aperti nel corso degli anni. Gli ultimi importanti interventi di risanamento e riqualificazione urbana del centro storico di Taranto fanno però sperare in una sua rinascita, ne è esempio la riapertura, anche se non ancora al culto, di molte delle sue splendide chiese.

Cambio delle poste per l’adorazione

Attualmente è solo la Confraternita del Carmine a compiere il Pellegrinaggio ai Sepolcri, ma in passato esso veniva svolto da tutte le confraternite tarantine ancora attive. Facilmente i numerosi e colorati cortei si incontravano lungo il percorso, e quando ciò avveniva i confratelli si salutavano con ‘u salamelìcche – il salamalecco –  parola di origine araba che si rifà all’espressione al-salām ʿalaykum – “la pace sia con voi” – che in ambito islamico costituisce la maniera appropriata di salutare un proprio correligionario. Una sorta quindi di omaggio reciproco ancora oggi praticato dalle poste quando si incontrano nelle chiese o per le strade della città: nell’incrociarsi le coppie di perdùne si tolgono i cappelli e si salutano sbattendo contro il petto i rispettivi rosari e medaglioni.  Se si considera poi che ogni sodalizio portava in processione la troccola – strumento di legno finemente lavorato e  intarsiato che, se opportunamente agitato, produce il caratteristico suono, vero e proprio simbolo dei riti della Settimana Santa tarantina – si può ben immaginare il frastuono che si poteva avvertire per i vicoli e le stradine della città vecchia. A tal proposito in un atto notarile del 1708 si legge che il Vicario Capitolare fu addirittura costretto a proibirne l’uso (Cf Caputo, I giorni della Perdono, cit.). Nel 1875 fu invece l’allora sindaco f.f. Domenico Sebastio  ad intervenire con un’ordinanza, ma non ne cavò nulla in quanto quell’anno la troccola uscì regolarmente (ivi.). Per antico privilegio, sancito addirittura da sentenze di tribunale, ai confratelli del Carmine spettava – e spetta tuttora considerato che tale diritto non è mai stato abolito – la “dritta”, le poste del Carmine avevano cioè la precedenza su tutte le altre per quanto riguardava l’adorazione davanti al Sepolcro: al solo affacciarsi in chiesa dei confratelli del Carmine le coppie delle altre congreghe, anche se assorte in adorazione, si sarebbero dovute prontamente alzare per lasciare loro il posto. I Sepolcri sono impropriamente chiamati così: infatti non rappresentano il luogo in cui fu deposto il corpo di Gesù la sera della sua crocifissione – che avvenne di venerdì – ma vogliono ricordare l’istituzione del sacramento dell’Eucarestia da parte del Cristo durante l’Ultima Cena  – per l’appunto il Giovedì Santo. Tutto intorno agli altari delle chiese che li ospitano vengono preparate importanti scenografie, utilizzando per lo più fiori freschi, candele, stoffe colorate, fondali dipinti, piccole statue in cartapesta ecc. In passato non era raro l’uso della cera che, abilmente modellata,  donava all’insieme un’atmosfera più calda e di maggiore suggestione. Non mancano i cosiddetti piatti del Paradiso: bassi contenitori in cui sono stati fatti germogliare, al buio, grano, orzo e, a volte, leguminose. Le pallide, esili, piantine vengono poi avvolte da fogli di carta crespa colorata e collocate sugli altari. In passato, trascorsa la Settimana  Santa,  le mogli dei contadini passavano in chiesa a riprendersi i piatti benedetti e le piantine, sbriciolate nei campi, avrebbero dovuto garantire, o almeno così si sperava, una stagione favorevole e un abbondante raccolto.

Saluto tra i confratelli anziani

Al centro del Sepolcro viene posto il Repositorio che contiene l’Ostia consacrata, davanti alla quale i confratelli, con il cappuccio alzato, si inginocchiano per l’adorazione. Al sopraggiungere della coppia che segue alle loro spalle, questi si abbassano il cappuccio mentre quelli appena giunti, dopo una breve genuflessione, si portano sul lato destro dell’altare. Il confratello più “anziano” della coppia appena arrivata si avvicina al più “anziano” di quella ancora inginocchiata e gli sussurra in un orecchio: “Sia lodato Gesù e Maria”, al quale viene risposto al medesimo modo: “Sempre sia lodato”. Seguel’abbraccio tra le due poste, entrambe si genuflettono davanti al Sepolcro e per i confratelli appena giunti, dopo essersi inginocchiati e aver alzato i cappucci, può iniziare il momento di adorazione. Il Pellegrinaggio prosegue e le coppie si alternano regolarmente fino a concludersi, come abbiamo visto, nella tarda mattina del Venerdì Santo, con il rientro di tutte le poste alla Chiesa del Carmine. Poche ore ci separano dall’inizio della Processione dei Sacri Misteri, ma sono ore di calma apparente. Fedeli, turisti, semplici curiosi, confluiscono da ogni dove nelle vie del centro, per accalcarsi di fronte all’ingresso della chiesa. Tutta la città sembra ora fermarsi, quasi a voler trattenere il respiro, nell’attesa che il portone principale si riapri e lasci intravedere la sagoma del troccolante. Il lungo corteo dei confratelli incappucciati, uniti in un silenzioso raccoglimento, lentamente andrà sgranandosi tra le vie del borgo: i riti della Settimana Santa tarantina stanno per rivivere uno dei suoi momenti più intensi ed emozionanti. (Fine)

Ritratto di Perdone

Ritratto di Perdone

  Informazioni, notizie storiche, aneddoti e curiosità sui riti della Settimana Santa di Taranto, contenuti in questo e nei precedenti articoli, sono stati tratti in massima parte dalle opere di Nicola Caputo al quale rivolgiamo un doveroso ringraziamento per l’infaticabile lavoro di ricerca e conservazione delle tradizioni popolari tarantine. Per le indicazioni bibliografiche e le note al testo ci permettiamo di rinviare a: F. Lacarbonara, Il cammino dei Perdoni. Il Pellegrinaggio ai Sepolcri nei riti della Settimana Santa di Taranto, in «Spicilegia Sallentina», 7 (2010), 87-96.

Testo e foto di:

Francesco Lacarbonara 

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I Perdoni

Posta di Perdoni

Posta di Perdoni

Sono loro, le perdùne (i perdoni) – a incarnare l’anima più profonda e autentica dei riti della Settimana Santa tarantina, almeno per quanto riguarda le processioni portate avanti dalla Confraternita del Carmine. A tal proposito corre l’obbligo di precisare che col termine perdùne si indicano solo i confratelli di questa congrega, mentre i membri di tutte le altre confraternite sono chiamati più comunemente le fratelle (i fratelli). Fedeli alla vecchia regola dei Carmelitani scalzi, essi solo percorrono l’intero tragitto del Pellegrinaggio ai Sepolcri e della Processione dei Misteri a piedi scalzi, quasi a voler rimarcare con questo sacrificio il loro intento penitenziale; in tutte le altre occasioni invece i confratelli del Carmine indossano scarpe bianche con coccarda blu sul dorso e calze nere.

Posta di perdoni, particolare

L’abito di rito si compone di un ampio camice bianco, detto anche sacco, stretto in vita da un cordoncino e lungo fino a metà gamba, per rendere ben visibile i piedi nudi. Infilati sul camice, due grandi scapolari o abitini di panno nero o blu scuro recano la scritta, ciascuno, o Decor oCarmeli. Della coppia di confratelli, il più anziano – per anzianità è da intendersi qui quella di appartenenza alla Confraternita – sarà sempre quello disposto a destra (a sinistra per chi guarda) e porterà sul davanti lo scapolare con su scritto Decor e sul di dietro quello con su scrittoCarmeli. L’altro confratello, per consentire a chi guarda di poter leggere sempre la scritta Decor Carmeli sia che si ponga di fronte sia che si ponga dietro la coppia, avrà gli scapolari invertiti:Decor sul di dietro e Carmeli sul davanti; il Priore e gli assistenti indossano, a ragione del loro ruolo, scapolari ricamati con fregi dorati e argentati.

Abito di rito, particolare

A ricordo del flagello che percosse il Cristo scende, a sinistra dello scapolare anteriore, una cinghia scura, mentre a destra si può osservare un ricco medagliere e una lunga corona del rosario. Una mantellina color crema detta mozzetta – formata da un unico pezzo di lana di forma circolare e chiusa sul davanti da 22 bottoni ricoperti di stoffa nera – viene posta sul camice fino a ricoprire interamente il busto e il dorso del confratello. In occasione dei riti della Settimana Santa un lungo cappuccio bianco con due minuscoli forellini all’altezza degli occhi è calato interamente sul volto del confratello, mentre in tutte le altre manifestazioni è portato alzato sulla testa. L’abito è completato da un cappello nero – orlato con un nastro azzurro che scende da entrambi i lati del cappuccio – da un paio di guanti bianchi e da una lunga asta, bianca anch’essa, sormontata da un pomello nero, detta mazza obordone.

Croce dei Misteri

Durante il rito del Pellegrinaggio ai Sepolcri il cappello è portato in testa, per la Processione dei Misteri è calato invece dietro le spalle, ad eccezione del troccolante – il confratello che si è aggiudicato l’ambito simbolo della troccola e probabilmente il più significativo di tutta la Processione – che lo indossa sempre. Il rito della vestizione si svolge nell’oratorio della confraternita, sotto lo sguardo attento dei responsabili e dei fratelli più anziani, pronti a curare ogni minimo dettaglio. Compiuti gli ultimi preparativi la posta – ossia le coppie di perdoni che partecipano ai riti, ad eccezione dei portatori dei simulacri e dei singoli simboli – chiamata da un membro del consiglio di amministrazione del sodalizio, si appresta ad uscire, non senza aver reso prima omaggio alla Croce dei Misteri posta in un angolo dell’oratorio.

Le poste sono numerate – prima, seconda, terza, e così via – per stabilire l’ordine di uscita dalla Chiesa del Carmine in occasione del Pellegrinaggio ai Sepolcri e per indicare la loro giusta collocazione in seno alla Processione dei Sacri Misteri; il tutto si svolge in una composta atmosfera di intima commozione e partecipazione sincera. A’ prima posta – letteralmente: la prima posta, ancora oggi la più ambita – diretta ai Sepolcri della città vecchia, come quella diretta ai Sepolcri della città nuova, si appresta così ad uscire dalla Chiesa del Carmine.

Sono le 15 del Giovedì Santo, il Pellegrinaggio ai Sepolcri ha inizio e con esso si aprono i riti della Settimana Santa di Taranto.

Chiesa del Carmine, altare della reposizione

(Fine terza parte)

Testo e foto di:

Francesco Lacarbonara 

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