Archivio per la categoria ‘La stanza di Sophia’

Vélez Malaga 1904 – Madrid 1991

Di: Lucia Vantini

Ritratto di María Zambrano, proveniente dall’archivio fotografico della Fundación María ZAMBRANO, Velez Malaga.

Maria Zambrano non avrebbe mai incoraggiato un’attenzione alla sua persona. Sperava che il suo nome non comparisse da nessuna parte: le interessava solo scrivere ed esistere per i suoi amici e «per coloro che si presentano con il cuore aperto». Eppure, davanti ai suoi testi così traboccanti di sapienza, si ha la certezza che assecondare questa sua ritrosia sarebbe un grave torto per l’intera umanità.

Maria Zambrano nata da una famiglia di maestri nella terra assolata dell’Andalusia – terra di incrocio di Ebrei, Arabi, Gitani – è stata una filosofa nel senso più profondo del termine: era convinta che al mondo non avrebbe potuto fare altro che «vivere pensando» e, occorre aggiungere, “da donna”, cioè guardando le cose «attraverso l’anima».

Dal 1921, Maria Zambrano frequenta la facoltà di filosofia presso l’Università centrale di Madrid e dal 1931 al 1936 vi lavora come assistente alla cattedra di metafisica. Il suo percorso viene segnato dalle lezioni di Zubiri, Garcia Morente e soprattutto di Ortega y Gasset, che sarà per lei un vero e proprio maestro, rispetto al quale riuscirà però a trovare, non senza qualche piccolo conflitto, un cammino totalmente personale: la filosofia non poteva essere ripetizione o imitazione, ma sempre interpretazione a partire dalla propria esperienza. Fin dagli anni universitari intreccia filosofia e politica, pubblicando vari articoli in difesa della Repubblica, per scongiurare, e poi contrastare, la dittatura. Emblematicamente, il suo ultimo scritto, pubblicato nel novembre 1990, è I pericoli per la Pace, composto di fronte all’orrore della guerra nel Golfo Persico. Perseguitata dal regime franchista, vive gran parte della sua vita in esilio: dal 1939, e per 45 lunghissimi anni, si sposta continuamente per vari Paesi. Nel 1936 si trova a Santiago del Cile, dopo il matrimonio con il diplomatico Alfonso Rodriguez Aldave (dal quale si separerà dieci anni dopo).

Solo nel 1984, finalmente, può tornare in Spagna. Non vuole un’accoglienza ufficiale, ma solo alcuni amici. L’esilio è stato un dramma, segnato dall’apprensione affettiva e dalla precarietà economica, ma anche un’esperienza di rivelazione che farà per sempre parte di lei. Spogliata di tutto, dello spazio in cui abitare e del tempo della libertà, le appare di accedere alla rivelazione della vera fisionomia della natura umana: siamo tutti «nati a metà», esseri incompiuti che non hanno mai finito di nascere. Eppure, nonostante la tragicità del momento che assomigliava tanto ad una morte in vita, Zambrano trova in sé un’energia di resistenza: una certa «fame di nascere del tutto» continua a spingere la sua anima verso la speranza di una nuova rigenerazione.

Una volta a casa, la sua attività è intensa, circondata da amici e collaboratori. Nel 1987, viene insignita del dottorato honoris causa dall’Università di Malaga e l’anno dopo le viene conferito il prestigioso premio Cervantes. Nel 1989, nasce a Vélez Malaga la Fondazione che tutt’ora porta il suo nome. Due anni dopo, si spegne in un ospedale di Madrid. Per sua volontà, la lapide porta incisa una frase del Cantico dei Cantici, emblema di quella fiducia nelle rinascite che attraversa fin dall’inizio tutta la sua filosofia: «surge, amica mea, et veni».

Questa pensatrice poliedrica si è ovviamente occupata di molti temi che, in sintesi, si potrebbero distribuire secondo tre direttrici: teoretica, religiosa e politica.

Maria Zambrano critica la filosofia contemporanea per il divorzio fra logica ed esistenza ed è convinta che «ogni verità pura, razionale e generale, deve sedurre la vita; deve farla innamorare»: una filosofia sganciata dal mondo è vuota, sterile e asfittica, mentre la vita, senza una parola che la rischiari, la potenzi, la innalzi o dichiari i suoi fallimenti, si disperde nel nonsenso e in ordini simbolici stranieri. Un pensiero così incarnato arriva fino alle viscere e si snoda, senza dualismo, fra passività e attività: mai immunizzato rispetto al mondo, da un lato si lascia ferire e modificare dalle realtà con cui entra in contatto, fossero anche le più piccole, e dall’altro, paradossalmente proprio attraverso quest’aderenza pensante, diviene attivo e crea uno squilibrio che scombina – ma anche polarizza in altro modo – la realtà, offrendo imprevedibilmente aperture e squarci dapprima impossibili. La filosofia di Maria Zambrano vuole dunque essere poetica, pensiero che vive «secondo la carne» e non si stacca né dalle cose né dall’origine, e materna in quanto disponibile a rinunciare alla dialettica e all’astrazione per mantenersi aderente al concreto, accogliente e generante. Sarà questa ratio a condurre Zambrano sui sentieri del sacro, oscura e viscerale matrice della vita. Da un lato, il sacro affascina perché può salvare, ma dall’altro terrorizza, perché può distruggere. Cercando di gestire quest’inquietante ambiguità, la filosofia ha oscillato tra un atteggiamento di rimozione e uno sforzo di nominazione che lo rendesse divino, cioè in qualche modo avvicinabile. Oggi, scrive Zambrano, l’Occidente non fa più questo lavoro di tessitura: gli uomini raccontano la loro storia, esaminano il loro presente e progettano il loro futuro senza tener conto di Dio o di qualunque forma di eccedenza. Tutt’al più, mantengono un pallido ricordo del Dio cristiano, ma solo del suo lato potente e creatore e mai di quello oblativo che l’ha portato a donarsi loro in pasto. Pensando di poter assumere tale potenza, essi hanno rinnegato la propria creaturalità, per rifare il mondo a loro misura. Tuttavia, smettendo di essere figli hanno soffocato la propria umanità e si sono votati ad un destino di distruzione, lasciando un’Europa violenta e agonizzante, che ha realizzato la democrazia solo a parole.

Maria Zambrano, allora, consegna all’Occidente un’eredità impegnativa: realizzare un mondo effettivamente democratico, dove ciascuno e ciascuna possa essere persona, unica realtà che davvero conti, perché solo nella persona «il futuro si fa strada». L’avvenire auspicabile dovrà essere una sinfonia, un’armonizzazione delle differenze che, per essere davvero incontrate e non malamente sopportate, domandano pietà, cioè «sapienza di trattare con il diverso, con ciò che è radicalmente altro da noi».

Quello che Maria Zambrano offre è allora una filosofia della speranza: il sapere delle cose della vita è stato per lei frutto di lunghi patimenti, ma fino alla fine è rimasta certa che tale sapere «può – anzi dovrebbe – sgorgare dall’allegria e dalla felicità».

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Maria Zambrano:

S. Zucal, Maria Zambrano. Il dono della parola, Milano, Bruno Mondadori 2009.

Sito della Fondazione di Vélez-Malag

Referenze iconografiche:

Ritratto di María Zambrano, proveniente dall’archivio fotografico della Fundación María ZAMBRANO, Velez Malaga.

Immagine in pubblico dominio.

Fonte: enciclopediadelledonne.it

Licenza: Creative Commons CC BY-NC-SA 4.0.

Responsabilità

Pubblicato: 4 giugno 2016 da Francesco Lacarbonara in La stanza di Sophia, Tra cielo e terra
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RaissaEmmanuelSimone-241x300 Un giovane Lévinas con la moglie e la figlia

Emanuel Lévinas (1906-1995) testo tratto da un’intervista (per l’integrale, clicca qui)

La responsabilità di cui parlo è assai più paradossale. Il punto su cui insisto è che quando si è responsabili, si risponde sempre di un altro uomo. Noi, certo, possiamo ignorarlo, ma in realtà siamo responsabili anche di ciò che è successo poco fa a colui che è passato vicino a noi. Questa è la responsabilità. Noi siamo responsabili, come se fossimo colpevoli di fronte a tutti gli altri. Cito, a questo proposito, ancora una volta, il “versetto” – perché nei grandi scrittori le proposizioni sono dei versetti e di conseguenza i versetti sono assai spesso le proposizioni dei grandi autori – la frase di Dostojevskij: “Siamo tutti colpevoli – non responsabili, colpevoli – di tutto verso tutti ed io più di tutti gli altri”. Questo “io più che tutti…

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Credi, e tu muoverai le montagne!

Pubblicato: 16 marzo 2016 da Mattia De Giosa in La stanza di Sophia

I segni e le cose

«L’ingegnoso pagano ha detto:”Datemi un punto fuori, e io muoverò la terra”; il nobile spirito ha detto “Datemi un grande pensiero”: oh, la prima non è possibile, e la seconda non serve del tutto. C’è una cosa soltanto che può aiutare, ma essa non la si può avere da un altro: credi, e tu muoverai le montagne!» (S. Kierkegaard – Vangelo delle Sofferenze)

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Ritengo opportuno sottolineare, per me stesso, e per quanti vogliano accostarsi al pensiero di questo autore, l’importanza che ha la corretta conoscenza della situazione in cui si sviluppa il suo pensiero, e parlando di sviluppo è doveroso evidenziare che il pensiero di questo autore ha un percorso in cui subisce delle fasi evolutive nel tempo in cui l’autore visse, quindi non considerarlo un pensiero nato già così come è presentato nel suo “il fenomeno umano”, che a mio parere rappresenta una delle ultime tappe a cui giunge il suo pensiero. L’autore stesso scriveva prima di tutto per sé, escluso qualche piccolo saggio di cui ambiva la pubblicazione, e faceva dattilografare i suoi lavori per farli conoscere ai suoi amici e familiari. Già da lungo tempo l’autore, sapeva che i suoi lavori avevano ricevuto la condanna della “impubblicabilità”, ma riteneva utile per la sua stessa anima lo sviluppo del suo pensiero attraverso la sua penna. Proprio per questa situazione la maggior parte dei suoi scritti venne pubblicata postuma, e quindi l’autore non ha avuto la possibilità di replicare alle possibili interpretazioni non corrette del suo pensiero. Fortunatamente un primo tentativo di chiarire i malintesi che si svilupparono intorno alle sue opere fu portato avanti dal Padre Henri de Lubac SJ, il quale nel 1961 fu invitato dalla stessa Compagnia di Gesù a scrivere un libro che chiarisse il pensiero sviluppato nelle opere di Teilhard de Chardin, onde cercare di mettere fine alla querelle che soprattutto in Francia si era montata per la prima diffusione dei libri del nostro autore. Così fu dato alle stampe nel 1962 la prima edizione del libro intitolato “Le pensée religieuse du Père Teilhard de Chardin“ (Aubier – 1962) .

Ritengo pertanto fondamentale che qualunque approccio al nostro autore parta dalla conoscenza di questo testo del de Lubac, che ha scritto in piena libertà di pensiero ed opinione, senza obblighi né restrizioni solo con la preghiera di terminare il prima possibile il suo libro, come lo stesso autore dice “Devo precisare che nessun’altra consegna mi fu data se non quella di scrivere. Ideai l’opera a mio piacere. Non mi furono fatte pressioni perché segnalassi questo o tralasciassi quello. (Memoria intorno alle mie opere – Henri de Lubac –  Jaca Book 1992).

E’ inutile precisare che anche questo libro fu oggetto delle attenzioni del Sant’Ufficio che tentò di metterlo all’Indice, ma sembra che lo stesso Papa Giovanni XXIII si oppose a tale sanzione. Di qui la storia è nota, ovvero ci fu la pubblicazione del famoso Monitum in cui, a mio parere, la frase “dai pericoli delle opere di P. Theilard de Chardin e dei suoi discepoli.” suona come un avvertimento proprio al de Lubac.

(Fonte: I segni e le cose)

ferri_mose_monte_nebo“Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutto il paese: Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali, il paese di Efraim e di Manàsse, tutto il paese di Giuda fino al Mar Mediterraneo e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Zoar.
Il Signore gli disse: “Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza. Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!”.”
 (Deuteronomio  34, 1-4)

Mi permetto di accostare la situazione, non il personaggio, in cui si viene a concludere la vita di Mosè, come raccontato dalle Sacre Scritture, alla situazione conclusiva della vita di Teilhard de Chardin.

Mosè è colui che guida il “popolo di Dio” verso la terra promessa, sottraendolo alla schiavitù della terra d’Egitto, una schiavitù in una terra in cui si venerano più divinità, in contrasto con l’unico Dio d’Israele. Ma è anche l’uomo che pur portando avanti il disegno divino, si fermerà al confine della “terra promessa”, morendo prima che il popolo vi entrasse.

Secondo le stesse Sacre Scritture, il motivo di questa sua condanna a vedere, senza metter piede nella “terra promessa” è dovuto  al fatto di aver dubitato della protezione di Dio, temendo la lapidazione da parte degli israeliti inferociti per la carenza di acqua (vedi Esodo 17, 4) .

Veniamo ora a Teilhard de Chardin, anche la sua situazione è accostabile, con i dovuti distinguo, morto in una terrà che non è la stessa che gli ha dato i natali, nacque infatti a Orcines, nella regione francese dell’ Alvernia, morì a New York negli Stati Uniti. Ma, e questo è ancora più interessante, morì senza vedere riconosciute le sue idee attraverso le principali opere a cui teneva molto, “Le Milieu Divin” e “Le Phénomène Humain” ovvero senza raggiungere l’obbiettivo che si era prefisso, la sua terra promessa, e che sentiva come dovere di sacerdote e uomo, di mostrare al mondo la sua visione Cristocentrica, riunificatrice del Cosmo, attraverso la sua Legge di Complessità di Coscienza di stampo evoluzionistico in-alto/in-avanti !

Anche in questo caso, altra situazione accostabile, la causa della sua morte prima di veder riconosciute le sue idee è possibile attribuirla, sempre in modo arbitrario come tutto questo mio pensiero, alla sua “crisi del 1929” o quella del 1934 espressa nel saggio “Comment je crois”, che indignarono la stampa cattolica, ed in cui afferma che nell’evenienza della perdita della “…mia fede in Cristo, la fede in un Dio personale, la stessa fede nello Spirito, io continuerei, mi sembra, a credere nel Mondo…”.

Seppur morto prima di vedere riconosciute le sue idee, non si può dire che la sua opera non stia continuando a diffondersi, ormai la stampa si sta occupando delle sue opere sin da poco dopo la sua morte, anche se con alterne diffusioni, ed oggi la casa editrice Queriniana, sicuramente di stampo cattolico, sta ripubblicando diverse opere di Teilhard de Chardin. Inoltre il movimento culturale attorno al suo pensiero sembra fiorire notevolmente attraverso associazioni, tesi di laurea, conferenze pubbliche ecc. ecc.

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Sembra proprio che il fuoco che covava sotto le ceneri della sua scomparsa stia riprendendo vigore e chissà se col tempo non arderà il fuoco della “noosfera” su tutta la nostra terra sino all’integrazione totale unificante verso quello che lui chiamava il “punto Omega”.

(Fonte: I segni e le cose)

Pierre Teilhard de Chardin

Ritengo doveroso parlando del pensiero di questo autore chiarire quello che ritengo essere un punto essenziale per l’interpretazione che io faccio del pensiero di Teilhard de Chardin, ovvero che è essenziale per comprenderlo non separare, come molti hanno fatto l’uomo Teilhard, sacerdote gesuita, dal suo pensiero. Perché questa precisazione ? Semplicemente perché spulciando su vari siti online dedicati a Teilhard de Chardin ho trovato attribuito al suo pensiero ogni significato possibile ed immaginabile. A leggere sulla rete sembra sia stato il precursore del concetto di biosfera il precursore del movimento ecologico e persino il teorizzatore della stessa rete globale (leggi internet). Certo le chiavi di lettura che sono su questi siti hanno ognuna la giustificazione necessaria, ma quello che ho rilevato è che se si separa l’uomo nel suo vissuto dal suo pensiero gli si può far dire qualunque cosa, anche quello che non gli è mai passato per la mente !

Il problema di cui sto parlando è sicuramente un problema ermeneutico, ma che fonda in maniera essenziale la filosofia dell’uomo Teilhard de Chardin, del gesuita Teilhard de Chardin per la corretta interpretazione (se ciò è possibile) del pensiero di Teilhard de Chardin.

E’ quantomeno essenziale ritenere che per ben comprendere un autore, oltre che ai suoi scritti si associ la lettura di documenti del vissuto dell’autore, e di Teilhard de Chardin vi sono copiosi scritti che possono aiutare in tal senso. Mi riferisco soprattutto alle sue lettere alla cugina Marguerite (Genesi di un pensiero – Lettere dal fronte (1914-1919) Ed. Feltrinelli 1966) che sono state anche spesso male interpretate a causa di un timore eccessivo di ciò che appare come un eresia dei dogmi fondamentali del cattolicesimo,  ed invece vanno integrate con epistolari successivi ( Lettere di Viaggio (1923-1939) (1939-1955) Ed. Feltrinelli 1962).

Il pensiero di Teilhard si forma sì nell’uomo scienziato, ma anche nell’uomo sacerdote, preoccupato ogni giorno di dir messa, estasiato dalla bellezza del creato di e da Dio, lo stesso Dio dei Cristiani, e sono convito lo stesso Dio della visione Cattolica dei Cristiani.

Credo sia stato proprio questo strabismo ermeneutico la fonte di tutti i guai di Teilard nei suoi rapporti con la Chiesa Cattolica, a cui apparteneva come devotissimo Compagno di Gesù, e che lo mettono in relazione, certo alquanto straordinaria con Galileo Galilei, vittima del medesimo strabismo ermeneutico.

(Fonte: I segni e le cose)

http://ottaviopongoli.files.wordpress.com/2010/06/chardin.jpg?w=270&h=300E’ oltremodo intrigante vedere la realtà attraverso prospettive diverse da quelle alle quali siamo abituati, ed una di queste, che ormai da qualche anno mi affascina è quella proposta dal padre gesuita Teilhard de Chardin. Paleoantropologo impegnato sul campo, per molti anni in Cina, svolse un ruolo fondamentale nella conciliazione, ancora non accettata definitivamente, della teoria evoluzionistica con le verità della fede cristiana.

Certo la teoria darwiniana era nata da meno di un secolo, Teilhard de Chardin nacque infatti l’anno prima della morte di Darwin, incominciò a scrivere i suoi primi testi poco più di cinquant’anni dopo la pubblicazione di Darwin sull’ Origine delle specie, ma il suo pensiero ne era già pregno.

Dicevo della prospettiva Teilhardiana “intrigante” e per me “affascinante” proprio perché è sorprendente come questo autore sia riuscito a dare alla teleologia cristiana una struttura decisamente evoluzionistica, perfettamente conciliata con la scienza moderna.

Sicuramente la sua visione della realtà è legata alla sua fede, infatti il suo pensiero e direi quasi il suo accostarsi all’ evoluzionismo è senza ombra di dubbio cristocentrico, ma la sua prosa ed il suo stile è sicuramente filosofico se non addirittura scientifico. Ed è anche notevole il suo pensiero che tiene conto dei possibili sviluppi negativi che la mancata accettazione di tesi scientifiche possa portare alla Chiesa, anche se il risultato per negativo che possa essere porta Teilhard  a ritenere che l’antitesi creata fra il pensiero scientifico e la fede non porti necessariamente all’ateismo, ma ad un positivismo in cui alla fede in Dio si sostituisca una “fede nel Mondo” così da ritenere comunque sempre l’uomo necessitato di avere una “fiducia di fondo” (come la definisce Hans Kung) in qualcosa o in qualcuno che lo proietti verso quello che Teilhard chiama con il termine più laico possibile l’ “in-là” il futuro al quale tendere per dare una giustificazione alle proprie necessità d’azione.

(Fonte: I segni e le cose)

vaticanoterzo

Lorenzo Milani

(1923-1967) priore di Barbiana, Lettera ai giudici del 18 ottobre 1965: valore della scuola popolare di Barbiana.

Da Archivum, cit.,

L’occasione per chiarificare ulteriormente il valore civile della propria opera di sacerdote-insegnante, don Milani l’ebbe in conseguenza della propria lettera ai cappellani militari sul tema dell’obiezione di coscienza; lettera per la quale fu processato per apologia di reato. Quella che segue è una parte dell’apologia che mandò al processo, non potendo essere presente per la malattia.

A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà accordarsi dunque su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede tra il passato…

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vaticanoterzo

Simone Weil (1909-1943)

Solo Dio, presente in noi, può realmente pensare la qualità umana negli sventurati, guardarli con uno sguardo veramente diverso da quello con cui si guardano gli oggetti, ascoltare veramente la loro voce come si ascolta una parola. Essi si accorgono allora di avere una voce; altrimenti non potrebbero neppure rendersene conto.

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di Pierfrancesco Stagi

Riproporre la domanda sul senso e la sua assenza, questione che possiamo per brevità riassumere nella problematica del “nichilismo”, significa per il pensiero contemporaneo fare i conti con la filosofia di Heidegger, e in particolare con una determinata lettura che egli dà della filosofia nietzscheana. Infatti, se il nichilismo assume un particolare significato in filosofia, e non rimane soltanto un concetto morale o culturale, ciò è dovuto essenzialmente alla definizione, che ne offre Nietzsche nel suo tardo pensiero, e alla successiva interpretazione che dell’intero fenomeno è presentata da Heidegger nei suoi scritti degli anni Trenta (tra cui emerge il monumentale Nietzsche, uscito nel 1961). L’odierna filosofia, che si è intensamente occupata della questione del nichilismo, da Derrida a Rorty e Vattimo passando per Severino, può essere considerata come una raffinatissima variante, una densa nota a margine della interpretazione heideggeriana del nichilismo nietzscheano.

Tuttavia è da chiedersi: quali sono gli elementi che caratterizzano il fenomeno del nichilismo per Heidegger? A differenza di Nietzsche che interpreta il nichilismo principalmente in rapporto allo sviluppo della civiltà e del pensiero moderno, Heidegger allarga i confini di questo fenomeno fino a comprendere l’intera storia della civiltà occidentale, che è letta come civiltà del tramonto (Occidente come terra dell’occaso), ossia civiltà del nichilismo. Nella modernità il nichilismo si determina come l’imporsi della soggettività “onnivora”, che tende a ridurre a se stessa (e quindi ad annullare — questo per es. è il senso del nichilismo già in Jacobi) ogni esteriorità naturale. La soggettività e la sua volontà di dominio sul reale (ciò che è reale per Hegel diventa razionale) rappresenta quindi per Heidegger, così come per Nietzsche, l’origine del moderno nichilismo. Inoltre, in una tale moderna logica di riduzione dell’esteriorità si vede in controluce per Heidegger l’intera logica riduttiva che caratterizza il pensiero occidentale in quanto nichilismo, che riduce l’esteriorità dell’essere, la sua radicale alterità, all’ente come ciò che si mostra e di cui si può disporre. In tal senso Heidegger critica profondamente il luogo comune filosofico di una apparente contrapposizione dell’oggettivismo della filosofia greca e medioevale con il soggettivismo della filosofia moderna, in quanto entrambe le due direzioni concordano in una logica riduttivista che tende ad annullare ogni forma di alterità per renderla disponibile e utilizzabile. Il pensiero moderno non avrebbe fatto altro che accelerare questo processo di annichilimento di ogni esteriorità, che si è mostrato con dirompente vitalità nell’irrompere del cristianesimo, che secondo l’interpretazione di Dilthey inaugura la soggettività e approfondisce, accelerandolo, il carattere dissolutivo della realtà già presente nella metafisica greca.

Nella sua tarda filosofia Heidegger cerca di trarre tutte le implicazioni di questa logica riduttivista che determina il pensiero occidentale, dando vita a quella affascinante e controversa interpretazione del destino dell’Occidente, che ancora oggi dopo settanta anni dalla sua elaborazione è ancora lontana dall’aver mostrato tutta la sua “verità”. Un tale dibattito è lasciato in questo contesto a quell’ampio conflitto di interpretazioni sulla eredità del nichilismo che rappresenta la parte più viva e feconda della filosofia contemporanea. Il lavoro qui presentato si concentra invece più modestamente sul giovane Heidegger, o meglio sul giovanissimo Heidegger, nel quale tutti questi temi sono già contenuti, sebbene soltanto allo stato di domande. Le risposte che Heidegger propone sono ancora incerte e i risultati per molti versi contraddittori. Nulla toglie però alla rigorosa impostazione problematica, che rivela ancora oggi la sua grande fecondità teorica che oltrepassa quindi il puro interesse storiografico per quell’Heidegger che non era ancora “Heidegger”. I temi centrali, che saranno sviluppati, sono quindi connessi alla dialettica tra nichilismo e domanda di senso, alla critica al soggettivismo moderno di matrice “psicologista” e al suo superamento nell’orizzonte della coscienza interpretata hegelianamente come spirito vivente, al contempo storico e filosofico, temporale e eterno. È possibile nella ricostruzione del periodo giovanile di Heidegger (1910-1916) distinguere tre fasi: 1) critica della modernità come nichilismo dei valori, 2) critica dell’inconscio come nichilismo “psicologista”, 3) lo spirito vivente come il superamento del nichilismo moderno e riproposizione della domanda sul senso. 1) Tra i primi scritti, caratterizzati ancora da una certa “ingenuità” filosofica, emerge Per morte ad vitam (Gedanken über Jörgensens “Lebenslüge und Lebenswahrheit”) [1910], in cui Heidegger contrappone le verità rivelate del cristianesimo con le verità moderne, che sono raggiunte attraverso il lavoro autonomo e indipendente della soggettività artistica. Dalle prime proviene una felicità durevole e sicura, dalle seconde l’angoscia e il tormento di una soggettività ormai priva di riferimenti e che è unica regola di se stessa. Il nichilismo è interpretato pertanto come l’emergere della soggettività artistica e “decadente”, in cui la persona è messa in pericolo nel suo valore “assoluto” e ridotta a personalità. L’unico modo per interrompere questo processo di dispersione del valore della persona è tornare a riferirsi a quel patrimonio di verità che è contenuto nella rivelazione cristiana, unica fonte di felicità e di emancipazione per l’uomo moderno, ormai privo di ogni ancoraggio, se non in se stesso e nella sua volontà autodistruttiva.

Heidegger però non si mostra in questi anni giovanili come un irriducibile critico della modernità e delle sue conquiste filosofiche, ma tenta una seppur difficile e a volte discutibile conciliazione come nella recensione a Aristoteles und Kant di Sentroul [1914]. Kant ed Aristotele non devono essere semplicemente contrapposti secondo il modello caro alla Neoscolastica del suo tempo, ma è necessario secondo il giovane Heidegger provare una conciliazione tra il realismo aristotelico e l’impostazione trascendentale moderna e kantiana, che mostri come la logica aristotelica trovi nella rivoluzione kantiana non una confutazione ma piuttosto una riconferma. In tal modo Heidegger palesa un atteggiamento antimodernista moderato, che cerca un confronto filosofico tra le verità della fede e le conquiste del pensiero moderno senza vagheggiare un impossibile ritorno alla trionfante cristianità medioevale (che rimaneva alla base delle prese di posizioni dottrinarie della Neoscolastica). L’aspetto forse meno noto della produzione di questi anni è indubbiamente il confronto con la filosofia e la psicologia della religione, che ispirò un breve ma significativo scritto — Religionspsychologie und Unterbewusstsein [1912]. Heidegger critica l’interpretazione meccanicista dell’inconscio, che è propria della psicologia sperimentale contemporanea: l’inconscio è visto come un grande contenitore in cui si ammassano tutte le reazioni e le paure della psiche all’incontro con la realtà esterna. La filosofia della religione dei primi anni Venti, e in particolare James, sfruttarono il concetto di “inconscio” per spiegare l’essenza stessa della esperienza religiosa, che è considerata come il risultato della reazione dell’inconscio all’incontro con una realtà esterna che sovrasta l’uomo e che gli incute timore. La religione rappresenta quindi il tentativo di creare un insieme complesso e correlato di certezze “psicologiche”, che possano servire a rimuovere il carattere minaccioso della realtà esterna. Il fatto religioso viene quindi retrocesso a una dimensione completamente interiore e personale, che rifugge da ogni dimostrazione razionale e la cui universalità è posta radicalmente in discussione. Heidegger nella sua critica alla impostazione psicologica in materia di filosofia della religione si richiama a una “cosalità” (Sachlichkeit) del fatto religioso, che resiste a ogni tentativo di riduzione a una pura manifestazione interiore e psicologica. La riduzione della esperienza religiosa a esperienza del legame del tutto personale dell’anima con Dio è per Heidegger solo una “cosalità” (Sachlichkeit) del fatto religioso, che resiste a ogni tentativo di riduzione a una pura manifestazione interiore e psicologica. La riduzione dell’ esperienza religiosa a esperienza del legame del tutto personale dell’anima con Dio è per Heidegger solo la manifestazione a livello religioso di quel nichilismo che determina i pensiero moderno, ossia di quella volontà della soggettività di inglobare e, diciamo così, “cannibalizzare” l’esperienza di alterità presente nella religione. (Per inciso: se si vuole parlare di un Heidegger “cattolico”, forse bisognerà proprio partire da qui, ossia dal carattere “cosale” e non solo interiore e personale dell’ esperienza religiosa che invece caratterizza l’ interpretazione moderna e protestante del fatto religioso. Il fatto biografico da solo qui non basta…).

Le tensioni filosofiche in rapporto al nichilismo moderno e alla fede cristiana raggiungono una parziale sintesi soltanto nella Schluss [1916] alla tesi di abilitazione Die Kategorìen- und die Bedeutungslehre des Duns Scotus, dove Heidegger riprende il tentativo di unificare il realismo della dottrina medioevale delle categorie (a questo proposito poco importa se originale di Duns Scoto o no…) e l’impostazione trascendentale della filosofia moderna. Valgono le categorie della logica in modo assoluto o dipendono dal contesto storico e culturale in cui furono elaborate, si chiede Heidegger? È possibile unificare la prospettiva metafisica, cui secondo il giovane Heidegger alla lunga la filosofia non può rinunciare pena il venir meno della sua più propria vocazione, con la dimensione storica e “gettata” del pensare filosofico? L’unità fornita dallo spirito vivente, di chiara ascendenza hegeliana, viene in aiuto a Heidegger al fine di unire questi due estremi del pensiero filosofico moderno: la verità e la storia, ossia la radicale domanda di senso con l’inevitabile relativismo nichilista. La coscienza vivente indica infetti proprio il carattere profondamente storico della coscienza, che in quanto vivente vive costantemente in un hic et nunc, ma è al contempo aperta a ciò che le è estraneo, che non le appartiene completamente, che le si oppone, senza tuttavia anelare a ridurlo completamente a sé o a annularlo nella sua alterità. Essa infonde la vita a ciò che le è estraneo, le dona il “senso”, ma non la supera (aufhebi), non la elimina. La coscienza vivente è quindi per Heidegger pura donazione di senso che non si contrappone soltanto al nichilismo ma che in qualche modo lo completa, lo “spiritualizza” togliendolo alla sua pura dimensione naturale e materiale: grazie allo spirito vivente la filosofia si apre radicalmente e profondamente alla dimensione dello spirito senza tuttavia perdere, o semplicemente abbandonare, ciò che fin dalla sua origine la lega alla finitezza e alla sua insuperabile storicità di discorso “umano” su Dio.

Breve estratto di un saggio contenuto nel volume Nichilismo e questione del senso. Da Nietzsche a Derrida, a cura di S. Sorrentino, Aracne Edkrice, Roma 2005, pp. 83-106.

(Fonte: Giornale di filosofia della religione)
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