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Eugenia caryophyllata L.

Il loro nome non tragga in inganno. Come molti già sapranno, infatti, i chiodi di garofano nulla hanno a che vedere con il ben noto fiore, il garofano comune (Dianthus caryophyllus) simbolo di promessa di matrimonio, pegno d’amore e della Passione di Gesù.

I chiodi di garofano derivano invece dai boccioli fiorali, raccolti ed essiccati, dell’Eugenia caryophyllata (sin. Syzygium aromaticum, Caryophyllus aromaticus,Eugenia caryophyllus), albero sempreverde appartenente alla vasta famiglia delle Myrtaceae. Originario delle Molucche e diffuso spontaneamente nelle Isole Reunion, Antille, Madagascar e in Indonesia, oggi viene coltivato in molte aree tropicali: Antille, Africa orientale, Cina e Zanzibar, l’isola africana “delle spezie” e maggior produttrice mondiale per la quale rappresenta la migliore risorsa economica.

Fiori di Eugenia caryophyllata

Alto 10-15 m mostra una chioma tondeggiante, foglie ovato-lanceolate, opposte, di color rossastro da giovani che diventano con il passare del tempo di una tonalità verde scuro; viste in trasparenza mostrano numerosi puntini traslucidi, ricchi di olio essenziale. I fiori sono riuniti in corimbi ad ombrello: da un lungo calice rosso acceso sboccia un fiorellino bianco, dall’aspetto piumoso; ai fiori seguono piccole bacche rossastre. Una volta essiccati i singoli fiori assumono una forma che ricorda vagamente quella di un garofano, da qui il nome della famosa spezia. Ogni singolo chiodo di garofano è formato dal lungo calice gamosepalo, formato da 4 sepali e da 4 petali ancora chiusi che formano la parte tonda centrale. La prima raccolta dei bocci (che viene effettuata a mano in tarda estate ed in inverno) si ha dopo 6-8 anni dalla piantagione dell’albero, che poi produrra’ circa 34 chili di prodotto essiccato all’anno.

Boccioli essiccati

I boccioli essiccati hanno colore bruno e consistenza legnosa, si utilizzano interi, oppure vengono macinati, preferibilmente appena prima dell’utilizzo, per evitare la dispersione degli oli aromatici: emanano infatti un profumo forte, dolce e fiorito, con una punta di pepato e di “caldo”, mentre il gusto può ricordare quello degli infusi di carcadè. Ricordiamo ancora che i chiodi di garofano non vanno confusi col pepe garofanato, altrimenti noto come pimento, altra spezia ricavata dai frutti essiccati della Pimenta dioica, albero sempreverde, anch’esso della famiglia delle Myrtaceae e originario della Jamaica, importato da Cristoforo Colombo in Spagna pensando che fosse pepe.

Molto diffusi in Oriente i chiodi di garofano erano già utilizzati nella Cina di 2200 anni fa per le loro proprietà medicamentose. Il Meyers, antico segretario della legazione britannica a Pechino, potè assodare come essi fossero già citati da diversi scrittori cinesi, alcuni secoli prima di Cristo. Lo stesso riferì come gli ufficiali della corte usassero masticare alcuni chiodi di garofano prima di presentarsi al loro sovrano, affinchè il loro alito fosse gradevole. I cinesi chiamavano queste spezie col nome di “spezie a lingue di uccelli”, mentre oggi il loro nome volgare “Ting-hiang” vuol dire chiodi-profumo o chiodi-spezie. La medicina moderna ha confermato la validità di questa tradizione utilizzandone l’essenza nei disinfettanti orali.

In Occidente tracce di questa spezia risalenti al XVIII secolo a. C. sono state ritrovate in Siria, ma le sue proprietà farmacologiche e aromatiche vennero ignorate a lungo da greci e latini. Sembra che furono gli Arabi nel IV sec. ad introdurla, esaltandone il valore e la provenienza mitologica ed è del VI sec. la prima testimonianza archeologica, rinvenuta in Alsazia, in una tomba contenete una piccola scatola d’oro racchiudente due chiodi di garofano. Il mito di questa spezia crebbe con il tempo, come il loro valore: nel Medioevo veniva consigliata per combattere dolori frequenti e comuni, come il mal di testa o il mal di denti, e una manciata di chiodi di garofano poteva valere anche mezzo bue o un montone.

In Europa arrivò tramite la “via dell’incenso” e Dante ne dà una preziosa testimonianza, condannando il comportamento scialacquatore di un ricco senese del Duecento:

“… e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoperse
nell’orto dove tal seme s’appicca;
e tra ‘ne la brigata in che disperse”

(Inf. XXIX, 127-129)

Guido Cavalcanti e la brigata godereccia, miniatura del XV secolo

I versi si riferiscono ad un gruppo di dodici ricchi senesi, tra i quali Niccolò (da alcuni identificato con Niccolò dei Salimbeni) che saputo essere prossima la fine del mondo decisero di godersi la vita affrettandosi a spendere il molto denaro posseduto. Furono soprannominati la Brigata spendereccia (o godereccia) e il nome di Niccolò venne legato ai chiodi di garofano che avrebbe fatto importare dall’Oriente per aromatizzare la selvaggina. Secondo l’interpretazione del Landino, commentatore quattrocentesco, il giovane senese fece addirittura arrostire la carne non su legno ma su brace di chiodi di garofano per mandare in fumo una cifre astronomica.
Nel Medioevo si faceva uso di un qualche tipo di chiodi di garofano, chiamati gariofili, anche per scopi terapeutici. La Scuola Medica Salernitana li valutava una vera e propria panacea, efficace per combattere la fatica mentale o la perdita di memoria. Si credeva addirittura che le arance nelle quali fossero stati conficcati dei chiodi di garofano proteggessero dalla peste e a tale scopo, a Napoli, si preparavano pastiglie con questa spezia. (Fonte: www.taccuinistorici.it)

A tal proposito merita di essere ricordata la curiosa vicenda legata al cosiddetto Olio dei Ladruncoli.

Correva l’anno 1413 e la peste bubbonica imperversava in Europa. Quattro ladri furono catturati e accusati di rubare ai morti e alle vittime moribonde. Durante il processo il magistrato offrì loro la clemenza se avessero rivelato come avessero fatto a resistere all’infezione, mentre realizzavano atti così spaventosi. I quattro raccontarono allora che erano profumieri e commercianti di spezie e che avevano sfregato sulle proprie mani, orecchie e tempie una miscela speciale di erbe aromatiche, tra le quali il chiodo di garofano e il rosmarino. Ne derivò una formula chiamata, appunto, Olio dei ladruncoli ed elaborata sulla base di ricerche condotte sui metodi dell’erboristeria del XV secolo.

A partire dal XVI sec. i chiodi di garofano iniziarono ad essere importati direttamente dagli europei grazie ai portoghesi di ritorno da Timor Est e dagli olandesi, che ne scoprirono un’ottima fonte nell’isola di Zanzibar e alle Maldive. Come già per la cannella essi divennero i principali importatori della spezia, tra le più amate e tra le più care. Gli olandesi e i belgi ne ricavarono successivamente l’olio essenziale che divenne un componente molto amato dalla cosmesi, che nei due paesi fiorì grazie anche al suo prezioso contributo.

Questa spezia, dal profumo e dall’aroma così singolare, divenne sicuramente uno dei prodotti più ricercati e cari del tempo. I medici consigliavano di metterla in infusione nel latte perché avrebbe mirabilmente aumentato le forze di Venere. I chiodi erano considerati infatti alla stregua di potenti afrodisiaci, tanto che il loro uso veniva proibito ai religiosi appartenenti ai vari ordini monastici.
I trattati medici dell’Ottocento continuarono a ritenere i chiodi di garofano validi a curare l’impotenza e ottimo rimedio anestetico da introdurre all’interno di un dente dolorante o sopra una ferita indolenzita.
Dalla droga si estrae infatti un olio essenziale considerato uno dei rimedi migliori contro stanchezza e depressione: è un ottimo tonico e un corroborante, da utilizzare in periodi di stress che danno stanchezza e spossatezza. In aromaterapia il tè di chiodi di garofano é consigliato nell’ultimo mese di gravidanza per rinforzare la muscolature dell’utero. Si ritiene inoltre che il profumo del chiodo di garofano riscaldi l’anima e allontani la malinconia, risvegli le passioni e faccia tornare la voglia di vivere; a tale scopo si può impiegare per la preparazione di un bagno caldo o per la doccia, come rivitalizzante.
Riguardo alle proprieta’ terapeutiche, l’essenza d’olio che si ottiene dai chiodi di garofano viene usato molto in odontoiatria, per le sue proprieta’ anestetiche e antisettiche: e’ utile per calmare il mal di denti, per disinfettare il cavo orale e profumare l’alito (a tale scopo si consiglia 1 goccia di olio di chiodi di garofano ed 1 di salvia su un batuffolo di cotone da applicare sulla parte dolente). Ottimo antivirale ed antibatterico è consigliato contro cistiti, faringiti, tonsilliti, coliti batteriche enterocoliti virali e spasmodiche (a questo proposito si può utilizzare durante i viaggi esotici poiché blocca gli effetti intestinali tipici). E’ anche un ottimo stimolante di calore, eccellente quindi per le persone che hanno cattiva circolazione periferica.

Arancia decorata con chiodi di garofano
Tra gli altri usi ricordiamo che una ciotolina di chiodi di garofano, mescolati a lavanda, artemisia e cannella, posta dentro la credenza dove teniamo pasta, pane, farina, terrà lontane le tarme ed eviterà che i vasi di vetro, i contenitori di plastica o le borse termiche, che per un po’ di tempo non vengono utilizzati, prendano un cattivo odore. In alternativa alla ciotolina i chiodi di garofano possono essere piantati sulla superficie di una mela, di un arancia o di un limone, e poi riposti nell’armadio o nella credenza.
Ma la vera sorpresa è data dal loro potere antiossidante (ORAC) tra i piu’ elevati in assoluto, con un indice di valore pari a 314446, circa 80 volte piu’ potente di una mela, che già di per sè è considerata un ottimo antiossidante. La conferma viene fornita da alcuni ricercatori spagnoli della Miguel Hernández University (UMH) di Elche che hanno indicato i chiodi di garofano come la più potente spezia antiossidante, in virtù del fatto che contengono elevati livelli di composti fenolici, in particolare eugenolo.

Juana Fernández-López, una degli autori dello studio pubblicato sulla rivista “Flavour and Fragrance Journal”, ha affermato che: “Tra le 5 differenti capacità antiossidanti che abbiamo testato, i chiodi di garofano hanno dimostrato di possedere la più alta capacità nel ridurre la perossidazione dei lipidi e di essere il miglior agente riducente del Ferro. I risultati della ricerca suggeriscono come l’uso di tali spezie tipiche della dieta Mediterranea, o dei loro estratti, possa essere una nuova via percorribile dall’industria alimentare, nella misura in cui non siano alterate le proprietà organolettiche dei cibi prodotti. Queste sostanze mostrano una forte capacità antiossidante, e possono dare forti benefici sulla salute.”

Il team di ricerca si è soffermato anche sugli effetti antiossidanti degli oli essenziali di altre spezie, come origano (Origanum vulgare), timo (Thymus vulgaris), rosmarino (Rosmarinus officinalis) e salvia (Salvia officinalis), con l’obbiettivo di favorire l’aggiunta di tali spezie nei prodotti alimentari, in particolare nella carne, come antiossidanti naturali, al posto di quelli sintetici.

“L’ossidazione dei lipidi è una delle principali ragioni per cui i cibi deteriorano”, continua Fernández-López, “e causa una significativa riduzione del loro valore nutrizionale, oltre alla perdita del sapore originario”. Queste alterazioni conducono ad una riduzione della durata della vita dei prodotti alimentari finiti: per evitare tale deteriorazione, l’industria alimentare impiega antiossidanti sintetici nel processo produttivo. Ovviamente, poichè questi sono composti chimici sintetici, vi sono molti interrogativi riguardo alla loro potenziale tossicità e a possibili effetti collaterali.

Lo studio condotto dai ricercatori spagnoli potrebbe essere molto importante ad esempio nell’applicazione di sostanze antiossidanti in alimentazione o nella conservazione dei prodotti industriali, per i quali oggi si usano solo sostanze sintetiche: l’alternativa dei chiodi di garofano, oltre ad essere naturale ed economica, risulterebbe così soprattutto utile e preservare la salute dei consumatori finali. (Fonte: http://www.eurekalert.org)

Il massiccio impiego alimentare dei chiodi di garofano andrebbe collocato a partire dal XVIII sec. e in cucina essi occupano tuttora un posto di primissimo piano, specie negli arrosti classici, ma accompagnano anche marinate di selvaggina, brodi (in particolare di pollo o gallina) e talvolta formaggi stagionati; si sposano bene anche con alcune verdure dolci, come cipolle, cipolline e carote.
Sono utilizzati nei dolci e nella frutta cotta, per aromatizzare il famoso vin brulè, ma anche nelle preparazioni a base di carne a lunga cottura (stracotti, salmì, stufati) e nelle conserve; rappresentano inoltre uno degli ingredienti del curry e del “garam masala” (una mistura di spezie tipica della cucina indiana e pakistana).
Tra i piatti più noti ricordiamo alcuni dolci di frutta, soprattutto di mele, pandolci e panpepati, biscotti, creme e farciture, liquori e vini aromatici.
Sono usati per aromatizzare il tè, alcuni infusi e nelle tisane, vengono utilizzati anche per preparare bevande corroboranti e scaldanti da bere nei periodi invernali.

Mustazzoli (o Mostaccioli), dolci tipici della cucina pugliese.

Non possiamo concludere questa nostra ampia carrellata sulle proprietà e le virtù dei chiodi di garofano senza aver prima fatto cenno almeno ad una delle tante ricette tipiche salentine in cui la spezia viene utilizzata, quella dei Mustaccioli (altrimenti noti come Scaiozzi).

Ingredienti:
1 kg di farina, 1 kg di mandorle, 800 gr di zucchero, 2 chiodi di garofano, un pizzico di cannella, 100 gr di olio extravergine di oliva, la scorza grattugiata di un limone, la scorza grattugiata di una mandarino, 5 uova, 6 cucchiai di cacao, 2 bustine di lievito, latte, 100 gr di ammoniaca, rhum.

Preparazione:
Si macinino i chiodi di garofano e si tengano da parte. Si tostino le mandorle in forno e si tengano da parte. Si faccia scaldare l’olio in una casseruola con le scorze grattugiate degli agrumi. Si setacci la farina a fontana sulla spianatoia, si mettano al centro il succo degli agrumi e le rispettive scorze grattugiate, i chiodi di garofano macinati, un pizzico di cannella ed il cacao. Si faccia un primo impasto quindi si rifaccia una fontana e si metta al centro l’ammoniaca sciolta con un po’ di latte caldo, l’olio che è servito per scaldare le scorze di agrumi con tutti i residui degli stessi, le mandorle tostate e rese in granella con un frullatore, le due bustine di lievito ed un bicchierino di rhum. Si impasti bene il tutto e quando gli ingredienti siano ben amalgamati tra loro, con un impasto che non risulti tanto duro (nel qual caso unire un po’ di latte), si facciano i mustazzoli, di forma rotonda o allungata; si poggino sulla placca del forno leggermente unta di olio e spolverata di farina e si metta in forno gia caldo a 170° per 25 minuti.

Una volta cotti rivestirli col fondente al cioccolato…e buon appettito a tutti!

Testo di: Francesco Lacarbonara

Articolo già pubblicato dall’autore sul sito della Fondazione Terra d’Otranto al quale si rimanda per i crediti e le referenze fotografiche.

di Federica Sgorbissa324233main_hs-2009-15-a-print_full

Diciannove anni di osservazione: questo è custodito negli archivi del telescopio spaziale Hubble. L’immagine qui sopra è una ricostruzione artistica di HR 8799b uno dei tre pianeti extrasolari che orbitano intorno a HR 8799, una giovane stella a circa 130 anni luce dalla Terra. I tre pianeti sono stati scoperti fra il 2007 e il 2008 osservando attraverso nuove tecniche le immagini in archivio (scattate nel 1998).

(Fonte: Oggi Scienza La ricerca e i suoi protagonisti)

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“Bella, intelligente, ricca, con una casa fatta per viverci bene e un’indole felice, Emma Woodhouse sembrava riunire alcuni dei beni più preziosi della vita”. Proprio come la protagonista del romanzo di Jane Austen, Emma Wedgwood (la più piccola di casa) sembrava non avere da desiderare niente più di quello che già la vita le offriva. La vivacità della sua indole, combinata all’illuminata educazione e alla liberalità della sua famiglia, le avrebbero tuttavia riservato un’esistenza movimentata fin dai primi anni della sua giovinezza, ben diversa da quella dell’omonima eroina letteraria.”

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Emma Wedgwood Darwin

Inizia così il libro “Emma Wedgwood Darwin. Ritratto di una vita, evoluzione di un’epoca”, Sironi editore, la prima biografia di Emma pubblicata in Italia.

Chiara Ceci, naturalista che si occupa di comunicazione della scienza e che ora lavora a Cambridge, alla Royal Society of Chemistry, ci racconta fin dall’infanzia la storia di Emma Wedgwood, compagna di vita del celebre naturalista che ha formulato la teoria dell’evoluzione.

E sembra effettivamente di trovarsi in uno dei romanzi di Jane Austen, tra visite ai parenti, passeggiate nella campagna inglese e servizi da tè. Ma i personaggi che popolano questa biografia sono in realtà profondamente diversi da quelli letterari: le donne della famiglia Wedgwood hanno studiato e viaggiato tanto quanto gli uomini, non sono spinte dalla famiglia al matrimonio né lo cercano fin da giovani. Si tratta di una famiglia fuori dall’ordinario che, nel corso del tempo, ha visto nascere imprenditori, filantropi, intellettuali, politici.

Il libro mostra come, con la sua cultura e intelligenza, Emma fu molto più che una spettatrice del lavoro del marito, e che ebbe un ruolo fondamentale nella pubblicazione di una delle opere scientifiche più importanti di tutti i tempi: “L’origine delle specie”.

Il libro racconta i cambiamenti di un periodo storico importante che va dalla fine delle guerre napoleoniche e attraversa l’epoca vittoriana, con le sue contraddizioni e le sue conquiste.  Il libro insomma parla di storia, di Emma, di Charles, ma parla soprattutto di scienza e di vita.

Crediti immagine: George Richmond, Wikimedia Commons

(Pubblicato da Livia Marin su Oggi Scienza La ricerca e i suoi protagonisti)

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copertinaSiamo a Baghdad, all’incirca nel 762 dC. Il neonato Islam sta pian piano espandendo la sua influenza nel mondo arabo, prima di allargarsi all’Europa e all’Africa del nord. Queste sono le coordinate della storia raccontata dal fisico inglese di origine irachena Jim Al-Khalili nel saggio La casa della saggezza – L’epoca d’oro della scienza araba edito da Bollati Boringhieri. In terra araba quello che temporalmente per noi è il Medioevo è un fiorire di mecenatismo e grandi pensatori, di nuove conoscenze e fibrillazione intellettuale.

Tre sono i fattori che secondo Al-Khalili spingono la scienza a imporsi nel mondo arabo a partire dalla seconda metà del secolo VIII. Innanzitutto, l’esigenza di tradurre in arabo i libri persiani e greci. Quindi l’imporsi di nuove tecnologie, come la carta, che favorirono la circolazione di testi e la proliferazione di traduzioni e nuove versioni di classici greci e persiani, sempre più corretti e precisi. Infine un ruolo non marginale fu l’interesse crescente per l’astrologia zoroastriana, che spinse i mecenati a finanziare progetti di astronomia. Nessun lapsus: fu proprio l’astrologia un grande motore di conoscenza astronomica. La commistione fra quello che oggi distingueremmo in scientifico e pseudoscientifico era in quel contesto storico perfettamente nella norma e per nulla limitante: lo dimostra anche la feconda unione fra alchimia (al-Kimiya) e chimica (Kimiya) nell’opera di Jâbir ibn Hayyân, noto in Occidente col nome Geber l’alchimista.

Dopo la fondazione avvenuta nel 762 Baghdad divenne così il centro del mondo scientifico. Il califfo abbaside al-Ma’mun fu un mecenate entusiasta e fondò il cuore pulsante di questo movimento culturale, la “Casa della Saggezza” (Bayt al-Hikma), che dà il titolo italiano al saggio. Il titolo originale inglese, invece, è Pathfinders (pionieri) e reca un tributo ai protagonisti che popolavano la Casa della Saggezza di Baghdad: dai tre fratelli Banū Mūsā, autori di opere ingegneristiche d’avanguardia al grande matematico al-Khwārizmī, padre dell’algebra, che importò nel mondo arabo i numeri indiani, da noi tutt’ora usati ed erroneamente chiamati numeri arabi. E come non citare il “biologo” Abu Uthman al-Jahith, autore di un pionieristico libro di classificazione degli animali?

Al-Khalili, docente di Fisica Teoria all’Università del Surrey e già autore de La fisica del diavolo, qui sveste i panni del fisico teorico per indossare quelli dello storico: La casa della saggezza è un libro vivace che, pagina dopo pagina, contribuisce a minare alle fondamenta una serie di luoghi comuni sulla scienza, sul suo rapporto col mondo arabo e con quello occidentale. Al-Khalili è un grande esperto di storia della scienza araba e ha curato, per la BBC, la serie di documentari Science and Islam.

La casa della saggezza contribuisce a ricordare la straordinaria dignità della scienza extraeuropea, troppo spesso offuscata dai grandi nomi della rivoluzione scientifica occidentale. Al-Khalili non nega l’importanza di quell’esperienza straordinaria che è l’epoca di Keplero, Galileo e Newton: tuttavia, la rivoluzione copernicana e il prosieguo della scienza in Europa hanno ben più di un debito nei confronti dei grandi uomini di cultura che per 700 anni hanno fatto del mondo arabo-islamico il punto di riferimento del mondo scientifico.

Pubblicato da Enrico Bergianti su Oggi Scienza La ricerca e i suoi protagonisti

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La rivincita dei tiratardi

Pubblicato: 20 settembre 2013 da Redazione pse in ScientificaMente
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di Federica Sgorbissa

All’Università di Liege, in Belgio, si scoprono i vantaggi di una vita da gufo

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Asio otus

A patto che rispettino i loro naturali ritmi di sonno, le persone che la mattina proprio non riescono a  svegliarsi presto (e che la sera non vanno a dormire prima che sia tardissimo) sembrano avere un vantaggio cognitivo sui mattinieri.

Christina Schmidt, dell’Università di Liege, in Belgio, lo ha scoperto analizzando le visualizzazioni cerebrali di alcuni volontari.

Due sono i fattori che controllano l’ora in cui andiamo a nanna. Il primo è determinato biologicamente: il nucleo soprachiasmatico, una zona del cervello regola, il ciclo circadiano e determina il modo in cui il nostro organismo si adatta all’alternrsi del giorno e della notte. A qualcuno questo “orologio biologico” dice di andare a dormire alle 9 di sera, a qualcun altro alle 3 del mattino. Il secondo fattore invece – la “pressione del sonno” – dipende semplicemente da quante ore è già sveglia una persona.

Intuitivamente verrebbe da pensare che le prestazioni cognitive migliori si dovrebbero ottenere a poca distanza dal risveglio, indipendentemente dall’ora in cui una persona si è alzata, perché in questo caso la pressione del sonno è molto bassa.

Secondo i dati di Schimdt invece non è così. La scienziata ha testato due gruppi, 15 mattinieri e 15 “gufi” – che nei giorni precedenti al test avevano dormito rispettando le proprie necessità naturali –. La prova sperimentale poteva avvenire 1,5 o 10,5 ore dal risveglio. I due gruppi dopo 1,5 ore di veglia avevano una performance comparabile, ma a 10,5 ore i “gufi” avevano i riflessi più pronti – i punteggi erano del 6% in media migliori -.

Questi dati, pubblicati sulla rivista Science, suggeriscono che la pressione del sonno cresce nel corso della giornata più velocemente negli individui con un’attitudine mattiniera, incidendo sulla prestazione cognitiva.

Le conseguenze di questo calo di prestazione hanno importanti implicazioni pratiche: le analisi del rischio attuali usano le ore in cui una persona ha lavorato per calcolare in quale momento delle giornata è più a rischio di avere un incidente. Lo studio di Schmidt però dimostra che un altro fattore da includere nelle analisi sono appunto le abitudini, mattiniere o serali, dell’individuo.

Crediti immagine: Asio otus, autore angusleonard, licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 2.0 Generico

(Fonte: Oggi Scienza La ricerca e i suoi protagonisti)

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di Andrea Romano

Anguis fragilis

Alla fauna d’Italia si aggiunge in questi giorni Anguis veronensis, una nuova specie di orbettino. La scoperta non è il frutto di recenti spedizioni in zone ancora inesplorate, ma di nuove e altamente precise analisi genetiche.

Gli orbettini (Genere Anguis) sono piccoli rettili squamati che, sebbene abbiano le sembianze dei serpenti in quanto sono del tutto privi degli arti, appartengono al sottordine Lacertilia, quello delle lucertole. Al momento, sono note solo quattro specie di tale genere, tutte eurasiatiche: A. fragilische vive in Europa occidentale e centrale, A. colchicadiffusa dall’Europa dell’est fino al Medio Oriente, A. graeca che si trova nella regione balcanica e A. cephallonica, esclusiva del Peloponneso.

Le popolazioni di orbettino italiane sono considerate appartenenti alla specie A. fragilis, ma un recente studio pubblicato sulla rivista Molecular Phylogenetics and Evolution ha proposto di elevarle al rango di specie a parte. Per giungere a tale conclusione, un gruppo di ricercatori, tra cui diversi italiani, ha condotto analisi filogenetiche sul DNA mitocondriale e nucleare prelevato da decine di esemplari di tutte le specie provenienti da ogni parte d’Europa.

I risultati indicano che tutti gli individui prelevati in Italia (insieme a quelli provenienti dalla Francia sud-orientale) formano un clade unico e ben distinto da quelli che identificano le altre specie. Inoltre, gli esemplari assegnati al gruppo italiano sono portatori di peculiari aplotipi, ovvero combinazioni di varianti alleliche strettamente associate tra loro lungo un cromosoma, la cui condivisione tra individui solitamente identifica un’origine comune. Infine, le popolazioni italiane manifestano differenze a livello morfologico, quali la lunghezza della coda e il numero di scaglie caudali, rispetto ad A. fragilis. Lo status di specie a parte viene dunque corroborato da tre evidenze diverse: i ricercatori propongono per la specie italiana il nome A. veronensis, resuscitando quello che era stato assegnato a questi organismi da Ciro Pollini nel 1818.

Le analisi indicano inoltre come la specie italiana si sia differenziata in tempi precoci nel corso della radiazione adattativa del genere Anguis: è possibile, conclude lo studio, che alla base dell’evento di speciazione abbia giocato un ruolo importante l’orogenesi alpina terziaria, mentre la diversità genetica ad oggi osservata potrebbe essersi generata all’interno di rifugi glaciali nella penisola italiana.

Crediti immagine: Marek bydg, Wikimedia Commons (Anguis fragilis)

(Fonte: Oggi Scienza La ricerca e i suoi protagonisti)

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di Stefano Dalla Casa

Curiosity Rover Arm Camera square

Curiosity Rover Arm Camera square

Marte ha un suolo eterogeneo, sia strutturalmente che chimicamente. Se riscaldato sprigiona molto vapor d’acqua, e si tratta di un’acqua un po’ diversa da quella terrestre poiché contiene più deuterio (un isotopo dell’idrogeno). Ci sono tracce di composti organici contenenti cloro, ma non è ancora possibile stabilire se si tratti di una contaminazione o se si tratti di composti genuinamente marziani. Questo alla fine quello che si celava dopo la montagna di speculazioni degli scorsi giorni.

SAM (Sample Analysis at Mars), l’apparato di strumenti per l’analisi dei campioni è il vero protagonista della conferenza stampa di oggi e tutti gli scienziati intervenuti oggi al Meeting della American Geophysical Union, in particolare il leader del team John Grotzinger hanno cercato di rendere la platea partecipe del loro entusiasmo: c’è un “laboratorio CSI su ruote” su un altro pianeta e i dati che ci arrivano sono i primi del loro genere, perché non è mai esistito prima un laboratorio più raffinato.

Ma po’ di delusione rimane, perché quando uno scienziato, John Grotzinger appunto, della NASA parla in radio di una scoperta storica sul Pianeta Rosso da parte del più avanzato rover mai costruito, si pensa inevitabilmente a una sola cosa: vita. Poco importa ricordarsi che la missione di Curiosity non è mai stata quella di cercare gli extraterrestri, ma (tra le altre cose) di determinare con precisione quanto il pianeta si presti al suo sostentamento, che è una cosa ben diversa.

Una volta accettato però che non poteva trattarsi di vita, è stata subito sollevata l’ipotesi più probabile: molecole organiche. Anche se Curiositycome ricordato dal direttore stesso del JPL mentre si trovava a Roma per una conferenza, non è comunque in grado di distinguere tra composti organici di origine biologica o meno, rimaneva comunque una bella scoperta che avrebbe forse riaperto un vecchio dibattito sulla presenza di aminoacidi in alcuni meteoriti di provenienza marziana.

Ma un comunicato della NASA, non esattamente tempestivo, ha smentito anche questa ipotesi.

Grotzinger, quasi tentando di giustificarsi per le aspettative deluse (bruciano ancora esperienze come qeulla della vita all’arsenico) ha cercato di far capire che con questa missione ogni giorno è una scoperta, tanto è nuovo quello che ora possiamo vedere.

(Quello che ho imparato da questo è che bisogna essere molto attenti a quello che si dice, e ancor più attenti a come lo si dice).

(Fonte: Oggi Scienza la ricerca e i suoi protagonisti)

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di: Andrea Romano

Se fosse chiamato delfino fantasma non ci sarebbe nulla di male, dal momento che vengono portate le prime evidenti prove della sua esistenza: la vicenda riguarda la balena dai denti a spatola, o meglio il mesoplodonte di Travers (Mesoplodon traversii), specie che non é mai stata avvistata (viva) in natura, ma di cui si sospetta l’esistenza da oltre un secolo, tanto che possiede una collocazione tassonomica ben definita.

Le prime testimonianze fugaci della specie risalgono alla fine del XIX secolo, quando una mascella fu rinvenuta in Nuova Zelanda ma poi confusa con quella di una specie affine. Nel secolo successivo altri due ritrovamenti ossei (due scatole craniche) hanno arricchito il povero record della specie, ma anche questa volta i resti non furono correttamente assegnati. Si è dovuto attendere solo il 2002 perché, grazie ad analisi sul DNA, i tre reperti fossero con certezza assegnati a questa enigmatica specie, di cui fino ad oggi non si conosceva l’aspetto.

Fino ad oggi, appunto. Un gruppo di ricercatori guidato da Kirsten Thompson dell’Università di Auckland, ha infatti analizzato il DNA di due individui, una madre con il suo piccolo, spiaggiatisi ad Opape Beach in Nuova Zelanda nel 2010. Ancora una volta, erano stati scambiati un’altra delle 20 specie note della famiglia degli Ziphiidae (che contiene anche il nostrano Ziphius cavirostris), di cui ben 13 sono note frequentare le acque profonde a largo della Nuova Zelanda. Per fortuna, gli scopritori ne hanno raccolto campioni di tessuto e scattato fotografie, ora sulla copertina della rivista Current Biology su cui sono stati pubblicati i risultati.

Le analisi confermano che il DNA due individui è perfettamente compatibile con quello dei tre reperti ‘storici’: abbiamo dunque le prime informazioni riguardo l’aspetto di quello che è stato battezzato il ‘più raro dei mammiferi’. Come le specie affini, balena dai denti a spatola può superare i 5 metri di lunghezza e solo poche caratteristiche morfologiche la distinguono dai suoi parenti stretti: tra queste, la colorazione del rostro grigia scuro tendente al nero, le pinne scure e una piccola macchia nera vicino agli occhi.

Quello che invece rimane ancora oscuro sono le sue abitudini e le sue caratteristiche ecologiche: si pensa che, come tutti gli appartenenti alla famiglia, sia una specie adattata alle immersioni ad elevatissime profondità e che si nutra prevalentemente di cefalopodi. Per il resto, nulla. Gli enigmi sul delfino fantasma continuano…

Riferimenti:
Kirsten Thompson, C. Scott Baker, Anton van Helden, Selina Patel, Craig Millar, Rochelle Constantine. The world’s rarest whale. Current Biology, 2012; 22 (21): R905 DOI: 10.1016/j.cub.2012.08.055

(Fonte: Oggi Scienza la ricerca e i suoi protagonisti)

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Neutrini sott’acqua

Pubblicato: 27 marzo 2012 da Redazione pse in ScientificaMente
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di Daniela Cipolloni

A largo di Capo Passero, la punta più a sud della Sicilia, sta per esser avviata la costruzione di un grande telescopio sottomarino a 3.500 metri di profondità, destinato a captare le particelle più elusive dell’Universo, i neutrini di altissima energia provenienti dai confini più remoti della Via Lattea. Anche se non viaggiano più veloci della luce (come i dati preliminari dell’esperimento Opera avevano lasciato intendere), i neutrini serbano comunque una miniera di segreti ancora da scoprire. Il progetto europeo, al quale l’Italia partecipa con l’Istituto nazionale di fisica nucleare grazie a un finanziamento di 20,8 milioni di euro, si chiama Km3NeT (acronimo che sta per “telescopio per neutrini di chilometri cubici”) ed è una delle ricerche di punta individuate dalla Commissione Ue per la fisica del futuro. Una volta ultimata, l’opera sarà la seconda più maestosa dopo la Muraglia Cinese. Di questo e delle altre avventure in corso all’acceleratore Lhc di Ginevra, si è parlato il 24 marzo a Catania in occasione della conferenza “Esploratori dell’invisibile”, organizzata dall’Infn, alla quale si sono prenotati più di 1.200 studenti (www.infn.it/lhcitalia/).

Costruire un telescopio sott’acqua può sembrare bizzarro: perché mai scegliere il fondale marino come location? “Abbiamo bisogno di schermare i raggi cosmici”, spiega Emilio Migneco, coordinatore del progetto Km3Net. I chilometri d’acqua sopra l’antenna, in pratica, svolgeranno la stessa funzione della montagna che sovrasta i laboratori nazionali del Gran Sasso. “A differenza delle altre particelle, i neutrini interagiscono pochissimo con la materia e possono attraversarla indisturbati”. Compito di Km3Net sarà fotografare il passaggio subacqueo dei neutrini, o meglio i lampi (effetto Cherenkov) emessi nelle rare collisioni dei neutrini con le particelle di materia. Dalla traiettoria di queste scie luminose che s’accendono nelle profondità marine, i fisici sono in grado di risalire al percorso dei neutrini e seguirli a ritroso fino alla loro origine cosmica, come collisioni cosmiche o esplosioni di supernovae.

“L’occhio del telescopio sarà costituito da 12 mila sfere di vetro capaci di resistere fino a 600 atmosfere di pressione. Ogni sfera è dotata di 31 fotomoltiplicatori, disposti lungo 300 torri verticali alte 1000 metri, che andranno quindi a coprire un’area di svariati chilometri quadrati, da cui il nome del progetto”, prosegue Migneco. Ecco come funziona. “I sensori fotomoltiplicatori ricevono il segnale luminoso e lo trasformano in segnale elettrico, che viaggia lungo un cavo sottomarino in fibra ottica fino alla stazione a terra, a 80 km di distanza, dove il segnale verrà elaborato”.

Dal punto di vista ingegneristico e tecnologico, l’impresa è ambiziosa. “Per la costruzione di Km3Net useremo anche robot sottomarini teleguidati”. Ma può contare sull’esperienza maturata grazie ai progetti piota AntaresNestor eNemo, realizzati rispettivamente al largo di Tolone (Francia), Pylos (Grecia), e in Sicilia.

Tra quattro anni le prime torri dovrebbero esser pronte a ricevere i neutrini. “Ci aspettiamo di scoprire da dove hanno origine queste enigmatiche particelle”, dice Migneco. “Potremmo scoprire fenomeni ancora sconosciuti”. Si apre una nuova finestra, o meglio un oblò, sull’Universo.

Crediti immagine: INFN

(Fonte oggiscienza.wordpress.com)

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L’Italia? Un Paese fragile

Pubblicato: 31 ottobre 2011 da Redazione pse in ScientificaMente
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di Laura Pulici

AMBIENTE – Le frane in Italia non sono certo una rarità.  Soltanto nel 2010 si sono verificati 88 eventi franosi che hanno causato 17 vittime, 44 feriti e 4.431 sfollati.  La frana in Val Venosta, che ha fatto deragliare un treno di pendolari, e il crollo di un costone di roccia a Ventotene, che ha travolto una scolaresca in gita, sono solo alcuni dei fatti più recenti che hanno segnato gravemente l’Italia.

Negli ultimi 50 anni più di 6.000 persone sono morte a causa di frane e smottamenti. Tra le regioni più colpite troviamo il Trentino Alto Adige, la Liguria, la Campania, la Lombardia, la Toscana, la Sicilia e la Calabria.

Il nostro territorio è molto “fragile”. A dirlo sono i dati dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra): il 70,5% dei comuni è coinvolto da fenomeni franosi, di questi 2.940 presentano un rischio molto elevato. Lungo la Penisola sono inoltre segnalati 1.806 punti critici nel tracciato ferroviario soprattutto in Calabria, Liguria e Abruzzo e 706 in quello autostradale. Secondo la mappatura realizzata dal progetto IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia) dal 1116 al 2006 ci sono state più di 480.000 frane, contro le oltre 700.000 dell’Unione Europea.

Tra le cause del dissesto idrogeologico non ci sono solo le precipitazioni intense e i terremoti, ma anche fattori antropici come il disboscamento e l’abusivismo edilizio.

In termini economici, tra danni e opere di ripristino, le frane costano all’Italia circa 1 miliardo di euro all’anno.  E se allarghiamo l’orizzonte ai Paesi industrializzati, i danni provocati dal dissesto idrogeologico superano i 6 miliardi di euro.  Secondo gli esperti dell’Ispra, che hanno partecipato al II Forum Mondiale sulle Frane organizzato agli inizi di ottobre a Roma, il dato mondiale è sottostimato in quanto non sono disponibili informazioni relative ai Paesi in via di sviluppo.

Anche se diversi studi hanno dimostrato che porre rimedio ai danni causati dalle frane costa in media 10 volte di più rispetto all’attivazione di misure di prevenzione e di controllo, in Italia non c’è ancora una difesa del suolo e un’attività di gestione del rischio in tempo di pace.

(Fonte: http://oggiscienza.wordpress.com)

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